sabato 20 febbraio 2010

Apocalypse Now - Redux



di Francis Ford Coppola, con Martin Sheen, Marlon Brando, Robert Duvall, Dennis Hopper

Quello che fece Francis Ford Coppola nel 1979 fu senza pari: un film che non era solo “sul” Vietnam ma, come disse lui stesso, era il Vietnam, una storia che solo in apparenza sembra di guerra ma che in realtà è l’indagine perfetta dell’animo umano. Con questo film Coppola, se vogliamo, ha inaugurato un vero e proprio sottogenere: i film sul Vietnam. Ne sono seguiti moltissimi (Nato il 4 luglio, Platoon, La sottile linea rossa, Salvate il soldato Ryan, Full Metal Jacket, tanto per citare i più famosi) ma senza dubbio Apocalypse Now è quello che lascia maggiormente il segno nello spettatore. Liberamente ispirato da Cuore di Tenebra di Joseph Conrad, il film ne calca il senso profondo: la ricerca della follia, l’introspezione umana, valori assoluti che sono presenti in ogni essere umano: Coppola cambia il momento storico, il luogo d’azione e lo adegua ai suoi fini di denuncia sociale. La struttura del film è, di base, la stessa del libro: la ricerca sempre più assillante di un personaggio che agli occhi degli indigeni sembra essere un dio.

Nel 2001 Coppola fece uscire nelle sale una versione praticamente nuova del film: Apocalypse Now Redux. Quasi un’ora un più di pellicola (con alcune scene molto contestate ma comunque sempre d’effetto), nuovo doppiaggio e un nuovo finale, quello che era presente nella sceneggiatura originale e che purtroppo Coppola, per motivi di produzione, non poté subito integrare.

Il film inizia con le scena cult degli elicotteri che volano sulla giungla con The End dei Doors in sottofondo. Poi appare il primo protagonista, il capitano Willard (Martin Sheen), tormentato narratore e addetto all’indagine psicologica alla base di tutto il film. Gli viene affidata una missione: risalire il fiume Nung per uccidere il colonnello Kurtz (Marlon Brando) oramai impazzito e autore di una serie di delitti ingiustificati. Su questa semplice trama si basa l’intera epica avventura girata da Coppola che, oltre ad essere un film veramente spettacolare (sotto tutti i punti di vista) si annovera il fardello di essere anche, come avevo annunciato, una pellicola di denuncia. L’intento di Coppola era chiaro: far vedere al pubblico le atrocità e le verità della guerra che spesso venivano taciute. Per rendere chiaro questo intento Coppola consegna al capitano Willard una barca dall’equipaggio piuttosto singolare: quattro personaggi stereotipati (il surfista edonista, lo chef codardo, il ragazzino impulsivo e il capitano senza macchia) che cozzano, per la loro teatralità, con l’andamento drammatico e oscuro del film, e soprattutto un colonnello sanguinario, William Kilgore (interpretato magistralmente da un inarrestabile Robert Duvall) che incarna perfettamente le atrocità della guerra, il sadismo imperante e il più completo sprezzo per la vita umana.

La maestria di Coppola nel rendere Kurtz/Brando un dio anche agli occhi di Willard/Sheen (che lo conoscerà solo nel finale) è inarrivabile: coll’avanzare del film (lento ed epico) mano a mano ci si rende conto che il vero protagonista non è ne il Vietnam ne Willard ma proprio Kurtz, un’ombra onnipresente nella mente della ciurma alla sua ricerca e poi anche nello spettatore, costretto ad una inevitabile curiosità per quest’uomo diventato dio che semina orrore tra i Vietcong. Il capitano Willard, nel frattempo, verrà ossessionato da tale personaggio, rileggerà di continuo le sue carte, si interrogherà sulla giustizia del suo compito (ucciderlo) ed inevitabilmente si troverà addirittura ad impersonarsi con lui. Quando apparirà Kurtz sembrerà di assistere ad una visione, Marlon Brando sarà sempre nell’ombra (in contrasto alla luce predominante del resto del film), mai ripreso nella sua interezza (tecnica che infonde un senso di maestosità e fascino in chi guarda), e sarà proprio il dio benigno/maligno, adorato ed odiato dagli indigeni (tra cui un “acido” fotoreporter interpretato da Dennis Hopper, che spiega a Willard il carattere mistico del suo padrone). Tra le scene aggiunte una particolarmente toccante in cui Kurtz legge un articolo del Time ad un Willard imprigionato, in cui si annuncia la vittoria degli Stati Uniti nella guerra e quindi il perpetrarsi delle menzogne e delle falsità della guerra. In questo contesto Kurtz appare come un santo che risponde ad un disegno più grande: lui agisce in un campo che è fuori dalla percezione umana perché, proprio grazie alla guerra, lui è arrivato a capire cose che normalmente gli uomini nemmeno si chiedono e questo, proprio questo aspetto, è il lato più affascinante del film, la particolarità che lo rende diverso da un semplice racconto realistico di guerra. L’uccisione di Kurtz, il vero cuore di tenebra, sarà la vera e propria catarsi per Willard e, in senso più ampio, per l’intera, insensata, guerra.

martedì 16 febbraio 2010

American Beauty





di Sam Mendes, con Kevin Spacey, Annette Bening, Thora Birch


American Beauty, opera prima del regista teatrale Sam Mendes, sembra essere uscito da un vecchio romanzo di qualche scrittore alla Francis Scott Fitzgerald, quando il sogno americano era stato bello che metabolizzato, superato e quasi dimenticato. American Beauty narra le vicende più o meno tranquille di una classica famiglia americana medio borghese come ce sono tante, vicende che hanno però qualcosa di profondamente drammatico ed assolutamente comune: Lester Burnham (Kevin Spacey) ha problemi a lavoro, ha problemi con la frigida moglie (Annette Bening) e pure con la figlia (Thora Birch).

American Beauty, nel suo incedere tranquillo e assolutamente non eclatante, parla proprio, con ironia, della Bellezza (con la B maiuscola, si intende) di ritrovarsi a quarant’anni e capire che la vita è semplicemente noiosa.

Quando vicino ai Burnham si trasferiscono i Fitts (padre colonnello in pensione, madre succube e passiva, figlio ribelle) la vita delle due famiglie cambia radicalmente. Il figlio ribelle dei Fitts, Ricky, silenzioso e strano, si innamora della figlia dei Burnham, Jane, perché riesce ad andare oltre il concetto stesso di Bellezza trovando l’amore puro, incondizionato; Lester Burnham si prende una cotta per l’amica della figlia, Angela Hayes, la più carina della scuola, perché ha trovato, a suo modo, la Bellezza che sembrava essergli sfuggita da tempo. Contornano le storie principali l’amicizia di Lester per Ricky, che gli passa l’erba, e lo fa tornare ai vent’anni, quando la vita era tutta canne e rock’n’roll e l’essenza stessa della Bellezza sembrava essere a portata di mano; la sboccata storia d’amore tra Carolyn Burnham, moglie di Lester, che, curiosamente, il sogno americano ancora lo va cercando, e Buddy Kane (Peter Gallagher) che rappresenta tutto ciò che lei cerca in un uomo: soldi, successo e determinazione; il difficile rapporto tra il colonnello Fitts (Chris Cooper), irriducibile conservatore dedito alla disciplina, e suo figlio Ricky che, in maniera mai troppo evidente, si prende tranquillamente gioco di lui.

L’intero film si sviluppa su questi elementi, in un intreccio tutto sommato semplice ma mai scontato. La bellezza del nome del film (che tra l’altro è una qualità di rose, quelle che cadono sul corpo nudo di Angela, nei sogni di Lester e un disco dei Grateful Dead del 1970) è la costante di tutte le storie, perché è semplicemente questo che i personaggi cercano, niente più: il concetto assoluto di Bellezza in ogni sua variante o accezione. Non è vero che non importa come arrivare a tale Bellezza, il cammino è la parte più difficile e controversa, il film ne è fulgido esempio, specie nel finale, in cui uno dei protagonisti verrà sopraffatto non tanto dalla Bellezza quanto dal suo esatto contrario, la paura, e allora lo splendido incipit del film avrà un senso: Mi chiamo Lester Burnham. Questo è il mio quartiere, questa è la mia strada, questa è la mia vita. Ho quarantadue anni, fra meno di un anno... sarò morto. Naturalmente io questo ancora non lo so. E in un certo senso sono già morto.

Vincitore di 5 premi Oscar nel 2000.