martedì 16 novembre 2010

The Social Network


di David Fincher
con Jesse Eisenberg, Andrew Garfield, Justin Timberlake


Purtroppo è successo: il primo passo falso nella carriera di David Fincher. Mi dispiace davvero dirlo ma il cinefilo medio uscirà dal cinema tradito e anche piuttosto irritato: perché sprecare due ore della propria vita per conoscere la storia di Mark Zuckerberg, fondatore di quell'impero commerciale che è Facebook?
E io mi sono sentito tradito da Fincher, regista che stimo (tuttora dai) oltremodo perché di capolavori ne ha diretti parecchi (Seven, Fight Club, Zodiac, Il curioso caso di Benjamin Button) e questo Social Network non ha niente del suo genio, del suo modo di fare cinema, sembra che dietro la cinepresa non ci sia nemmeno lui!
D'altronde mi ero fidato, nelle interviste Fincher aveva rivelato che aveva accettato il progetto perché la sceneggiatura di Aaron Sorkin (La guerra di Charlie Wilson, Codice d'onore) era talmente geniale che dopo tre pagine aveva già dato l'ok. Non so, forse Fincher avrebbe dovuto leggere anche il resto perché la sceneggiatura è la parte più debole dell'intero film.
La vicenda è nota: l'ascesa miliardaria in internet di quel nerd simpatico come un calcio nelle gengive di Mark Zuckerberg. Il problema è che il film è piatto, noioso, non c'è brio, i protagonisti sono visivamente annoiati, Jesse Eisenberg (che fa Zuckerberg) non è nella parte, è semplicemente inespressivo! Le noiose sequenze in cui Zuckerberg è coinvolto in ben tre processi per furto di proprietà intellettuale si risolvono spesso in orgiastiche scene di feste e party vari o, nella seconda parte del film, direttamente nella sede californiana di Facebook che, secondo lo sceneggiatore e il regista, sembra più la sala prove dei Metallica che un ufficio.
Alla fine ci si chiede quale sia il target di questo film. Io sono amante del cinema e sono stato fregato dal richiamo dell'accoppiata Fincher-Sorkin ed immagino che molti altri abbiano fatto lo stesso errore; allora il quindicenne medio completamente soggiogato dal fenomeno Facebook potrà apprezzarlo? Ne dubito, dato che il film è prolisso e poco interessante per un teenager in preda agli ormoni; le ragazze? Perché dovrebbero trovare interessante un miliardario testa di cazzo che non guarda nemmeno in faccia i propri interlocutori?
In definitiva, non lo so. So solo che Fincher mi ha profondamente deluso e che probabilmente i soldi fanno gola a tutti e sfruttare l'onda di quel fenomeno di costume che è Facebook ha attirato anche un regista serio come lui.
Cose che salvo nel film:
  • La colonna sonora di quel genio di Trent Reznor, leader e compositore dei Nine Inch Nails, veramente magnifica, alle volte forse un po' eccessiva e fuori contesto, ma davvero ottima.
  • L'interpretazione di Justin Timberlake (lo so, è incredibile) nella parte di Sean Parker (altro guru dell'informatica, fondatore di Napster). Davvero un'ottima prova da attore e, in definitiva, il miglior personaggio di tutto il film, sia per il ruolo che riveste (il diavolo goethiano tentatore?) che per la carica di pazzia e paranoia che ricopre.
  • La scena nella seconda metà del film della prova di canottaggio dei due "antagonisti", i fratelli Winclevoss (Armie Hammer) girata con una fotografia molto più carica che nel resto del film, una telecamera fissa sul petto dei vogatori e sfocato ai lati dell'immagine. Ecco, quella sequenza di poco più di due minuti è il marchio di fabbrica del genio di Fincher, il suo cantuccio manzoniano, il suo coro, forse l'unico momento in cui il film si può dire veramente suo.
In America, ovviamente, il film sta facendo sfracelli. Credo che Zuckerberg, multimiliardario amato/odiato sia un po' il loro fiore all'occhiello e ripete la storia ormai abbastanza scontata che fu di Bill Gates prima, di Steve Jobs dopo: ovvero il nerd che, in questo caso dalla sua stanza al college, armato solo di un computer piega il mondo con un algoritmo (non suo per altro) e fa suo il sogno americano.
Il significato del film è tutto qui.

venerdì 15 ottobre 2010

Velluto Blu



di David Lynch
con Kyle MacLachlan, Isabella Rossellini, Dennis Hopper, Laura Dern

Se c’è una costante nella nemmeno troppo sconfinata filmografia di David Lynch è sicuramente quella di essere per lo più snobbato dalla critica per ogni sua opera. Nonostante abbia firmato indiscussi capolavori come Eraserhead e Elephant man, dato vita insieme a Mark Frost ad uno dei migliori telefilm di sempre, Twin Peaks, e divenuto un vero e proprio regista di culto, il suo rapporto con la critica cinematografica è stato sempre piuttosto turbolento. Una storia di incomprensioni, in realtà, perché è certo che Lynch ha un modo di fare cinema tutto suo. I suoi film hanno per soggetto incubi divenuti realtà (il bambino mostro di Eraserhead), temi difficili come le deformazioni fisiche in Elephant man, plot enigmatici (Mullholland Drive) o addirittura assenti (INLAND EMPIRE) e perfino un road movie il cui protagonista è un vecchio che attraversa gli Stati Uniti a bordo di un tagliaerba (Una storia vera). Il suo cinema rappresenta perfettamente la perdita della realtà e non solo: Lynch cuce addosso ai suoi personaggi una caratterizzazione psicologica così credibile che permette, nonostante l’assurdità delle situazioni rappresentate, di capire al meglio il loro animo, mentre il continuo bombardamento di visioni oniriche, sogni, distorsioni, mostri, incarnazioni del bene e del male, meandri oscuri, costringe lo spettatore a lasciarsi trasportare dalla bellezza delle immagini, dal susseguirsi di scene apparentemente inspiegabili. In questo elenco di tratti che non faccio fatica a definire marasma, trova posto anche una pellicola leggermente più convenzionale - ma non per questo ordinaria - che è Velluto Blu.

Velluto Blu è il quarto film di Lynch, 1986, ed è a tutti gli effetti un thriller ambientato in una consueta cittadina del nord ovest americano direttamente tratta dall’infanzia di Lynch stesso. Dai primi fotogrammi viene presentata la cittadina ritratta come in una cartolina degli anni ’50, nella sua normalità e ordinarietà. L’elemento che fa da cardine all’intero film è il ritrovamento da parte del protagonista (un grandissimo Kyle MacLachlan) di un orecchio umano in mezzo ad un campo. L’accadimento trasporta improvvisamente il film nell’atmosfera disturbata di un thriller torbido e ossessivo: dalle vaghe venature di commedia romantica all’americana (con tanto di bionda più desiderata del liceo fidanzata col giocatore di football, bionda perfettamente interpretata da Laura Dern) viste all’inizio, il ritrovamento dell’orecchio, come fosse un passaggio dimensionale, permette a Jeffrey Beaumont (Kyle MacLachlan) di scoprire i lati più oscuri della sua cittadina. Verrà coinvolto in un rapimento dove a pagarne le conseguenze è una Isabella Rossellini (Dorothy Vallens nel film) che subisce le violenze psicologiche e sessuali di quello che probabilmente è il personaggio migliore del film e forse uno dei più memorabili ruoli del mai troppo compianto Dennis Hopper. Dennis Hopper presta il volto a Frank Booth, gangster violento, disturbato e dalla parolaccia facile, vera e propria incarnazione del male e lato oscuro del film.

Chiara intenzione di Lynch era di immettere in un contesto decisamente convenzionale (cittadina ai limiti della noia, adolescente irrequieto ecc) il veleno disturbante della criminalità che nessuno ammette, una cattiveria incarnata magistralmente dal ghigno sempre inquietante di Frank/Hopper e da quella sottomissione masochistica di Dorothy/Rossellini che, per quanto possibile, è ancora più disturbante, disgustosa quasi. Frank rapisce il marito e il bambino di Dorothy facendola diventare vittima delle sue perversioni (celebre la frase di Frank: Cazzo, non guardarmi! mentre la costringe ad un atto sessuale sterile e sporco) e Dorothy a sua volta trova sfogo in quel ragazzo, Jeffrey, che si introduce in casa sua per spiarla, dopo averla vista cantare Blu Velvet in un locale. A casa sua Jeffrey scopre che la vestaglia della donna (di velluto… blu) è lo strumento feticista che usa Frank per eccitarsi e da quel momento in poi il brano Blu Velvet (più volte ripetuto) acquista una precisa valenza: ricorda allo spettatore quel malessere provato da Dorothy mentre viene schiavizzata, malmenata ed umiliata.

Caso raro nella filmografia di Lynch, il lieto fine apparentemente zuccheroso: Sono tornati i pettirossi, dice Jeffrey citando le parole dette in precedenza da Sandy (Laura Dern) secondo cui tali uccelli sarebbero simbolo di pace, catarsi e di purificazione dai mali del mondo.

Perché rivederlo?

Non solo perché è un thriller diverso, che necessita attenzione e che coinvolge, ma anche perché, essendo il film più accessibile di David Lynch, potrebbe spingervi a recuperare anche gli altri suoi lavori e scoprirvi interessati ad un regista visionario, amante di simbologie ed enigmi e che fa sognare e pensare. Un regista assolutamente non ordinario.


sabato 20 febbraio 2010

Apocalypse Now - Redux



di Francis Ford Coppola, con Martin Sheen, Marlon Brando, Robert Duvall, Dennis Hopper

Quello che fece Francis Ford Coppola nel 1979 fu senza pari: un film che non era solo “sul” Vietnam ma, come disse lui stesso, era il Vietnam, una storia che solo in apparenza sembra di guerra ma che in realtà è l’indagine perfetta dell’animo umano. Con questo film Coppola, se vogliamo, ha inaugurato un vero e proprio sottogenere: i film sul Vietnam. Ne sono seguiti moltissimi (Nato il 4 luglio, Platoon, La sottile linea rossa, Salvate il soldato Ryan, Full Metal Jacket, tanto per citare i più famosi) ma senza dubbio Apocalypse Now è quello che lascia maggiormente il segno nello spettatore. Liberamente ispirato da Cuore di Tenebra di Joseph Conrad, il film ne calca il senso profondo: la ricerca della follia, l’introspezione umana, valori assoluti che sono presenti in ogni essere umano: Coppola cambia il momento storico, il luogo d’azione e lo adegua ai suoi fini di denuncia sociale. La struttura del film è, di base, la stessa del libro: la ricerca sempre più assillante di un personaggio che agli occhi degli indigeni sembra essere un dio.

Nel 2001 Coppola fece uscire nelle sale una versione praticamente nuova del film: Apocalypse Now Redux. Quasi un’ora un più di pellicola (con alcune scene molto contestate ma comunque sempre d’effetto), nuovo doppiaggio e un nuovo finale, quello che era presente nella sceneggiatura originale e che purtroppo Coppola, per motivi di produzione, non poté subito integrare.

Il film inizia con le scena cult degli elicotteri che volano sulla giungla con The End dei Doors in sottofondo. Poi appare il primo protagonista, il capitano Willard (Martin Sheen), tormentato narratore e addetto all’indagine psicologica alla base di tutto il film. Gli viene affidata una missione: risalire il fiume Nung per uccidere il colonnello Kurtz (Marlon Brando) oramai impazzito e autore di una serie di delitti ingiustificati. Su questa semplice trama si basa l’intera epica avventura girata da Coppola che, oltre ad essere un film veramente spettacolare (sotto tutti i punti di vista) si annovera il fardello di essere anche, come avevo annunciato, una pellicola di denuncia. L’intento di Coppola era chiaro: far vedere al pubblico le atrocità e le verità della guerra che spesso venivano taciute. Per rendere chiaro questo intento Coppola consegna al capitano Willard una barca dall’equipaggio piuttosto singolare: quattro personaggi stereotipati (il surfista edonista, lo chef codardo, il ragazzino impulsivo e il capitano senza macchia) che cozzano, per la loro teatralità, con l’andamento drammatico e oscuro del film, e soprattutto un colonnello sanguinario, William Kilgore (interpretato magistralmente da un inarrestabile Robert Duvall) che incarna perfettamente le atrocità della guerra, il sadismo imperante e il più completo sprezzo per la vita umana.

La maestria di Coppola nel rendere Kurtz/Brando un dio anche agli occhi di Willard/Sheen (che lo conoscerà solo nel finale) è inarrivabile: coll’avanzare del film (lento ed epico) mano a mano ci si rende conto che il vero protagonista non è ne il Vietnam ne Willard ma proprio Kurtz, un’ombra onnipresente nella mente della ciurma alla sua ricerca e poi anche nello spettatore, costretto ad una inevitabile curiosità per quest’uomo diventato dio che semina orrore tra i Vietcong. Il capitano Willard, nel frattempo, verrà ossessionato da tale personaggio, rileggerà di continuo le sue carte, si interrogherà sulla giustizia del suo compito (ucciderlo) ed inevitabilmente si troverà addirittura ad impersonarsi con lui. Quando apparirà Kurtz sembrerà di assistere ad una visione, Marlon Brando sarà sempre nell’ombra (in contrasto alla luce predominante del resto del film), mai ripreso nella sua interezza (tecnica che infonde un senso di maestosità e fascino in chi guarda), e sarà proprio il dio benigno/maligno, adorato ed odiato dagli indigeni (tra cui un “acido” fotoreporter interpretato da Dennis Hopper, che spiega a Willard il carattere mistico del suo padrone). Tra le scene aggiunte una particolarmente toccante in cui Kurtz legge un articolo del Time ad un Willard imprigionato, in cui si annuncia la vittoria degli Stati Uniti nella guerra e quindi il perpetrarsi delle menzogne e delle falsità della guerra. In questo contesto Kurtz appare come un santo che risponde ad un disegno più grande: lui agisce in un campo che è fuori dalla percezione umana perché, proprio grazie alla guerra, lui è arrivato a capire cose che normalmente gli uomini nemmeno si chiedono e questo, proprio questo aspetto, è il lato più affascinante del film, la particolarità che lo rende diverso da un semplice racconto realistico di guerra. L’uccisione di Kurtz, il vero cuore di tenebra, sarà la vera e propria catarsi per Willard e, in senso più ampio, per l’intera, insensata, guerra.

martedì 16 febbraio 2010

American Beauty





di Sam Mendes, con Kevin Spacey, Annette Bening, Thora Birch


American Beauty, opera prima del regista teatrale Sam Mendes, sembra essere uscito da un vecchio romanzo di qualche scrittore alla Francis Scott Fitzgerald, quando il sogno americano era stato bello che metabolizzato, superato e quasi dimenticato. American Beauty narra le vicende più o meno tranquille di una classica famiglia americana medio borghese come ce sono tante, vicende che hanno però qualcosa di profondamente drammatico ed assolutamente comune: Lester Burnham (Kevin Spacey) ha problemi a lavoro, ha problemi con la frigida moglie (Annette Bening) e pure con la figlia (Thora Birch).

American Beauty, nel suo incedere tranquillo e assolutamente non eclatante, parla proprio, con ironia, della Bellezza (con la B maiuscola, si intende) di ritrovarsi a quarant’anni e capire che la vita è semplicemente noiosa.

Quando vicino ai Burnham si trasferiscono i Fitts (padre colonnello in pensione, madre succube e passiva, figlio ribelle) la vita delle due famiglie cambia radicalmente. Il figlio ribelle dei Fitts, Ricky, silenzioso e strano, si innamora della figlia dei Burnham, Jane, perché riesce ad andare oltre il concetto stesso di Bellezza trovando l’amore puro, incondizionato; Lester Burnham si prende una cotta per l’amica della figlia, Angela Hayes, la più carina della scuola, perché ha trovato, a suo modo, la Bellezza che sembrava essergli sfuggita da tempo. Contornano le storie principali l’amicizia di Lester per Ricky, che gli passa l’erba, e lo fa tornare ai vent’anni, quando la vita era tutta canne e rock’n’roll e l’essenza stessa della Bellezza sembrava essere a portata di mano; la sboccata storia d’amore tra Carolyn Burnham, moglie di Lester, che, curiosamente, il sogno americano ancora lo va cercando, e Buddy Kane (Peter Gallagher) che rappresenta tutto ciò che lei cerca in un uomo: soldi, successo e determinazione; il difficile rapporto tra il colonnello Fitts (Chris Cooper), irriducibile conservatore dedito alla disciplina, e suo figlio Ricky che, in maniera mai troppo evidente, si prende tranquillamente gioco di lui.

L’intero film si sviluppa su questi elementi, in un intreccio tutto sommato semplice ma mai scontato. La bellezza del nome del film (che tra l’altro è una qualità di rose, quelle che cadono sul corpo nudo di Angela, nei sogni di Lester e un disco dei Grateful Dead del 1970) è la costante di tutte le storie, perché è semplicemente questo che i personaggi cercano, niente più: il concetto assoluto di Bellezza in ogni sua variante o accezione. Non è vero che non importa come arrivare a tale Bellezza, il cammino è la parte più difficile e controversa, il film ne è fulgido esempio, specie nel finale, in cui uno dei protagonisti verrà sopraffatto non tanto dalla Bellezza quanto dal suo esatto contrario, la paura, e allora lo splendido incipit del film avrà un senso: Mi chiamo Lester Burnham. Questo è il mio quartiere, questa è la mia strada, questa è la mia vita. Ho quarantadue anni, fra meno di un anno... sarò morto. Naturalmente io questo ancora non lo so. E in un certo senso sono già morto.

Vincitore di 5 premi Oscar nel 2000.