martedì 16 febbraio 2010

American Beauty





di Sam Mendes, con Kevin Spacey, Annette Bening, Thora Birch


American Beauty, opera prima del regista teatrale Sam Mendes, sembra essere uscito da un vecchio romanzo di qualche scrittore alla Francis Scott Fitzgerald, quando il sogno americano era stato bello che metabolizzato, superato e quasi dimenticato. American Beauty narra le vicende più o meno tranquille di una classica famiglia americana medio borghese come ce sono tante, vicende che hanno però qualcosa di profondamente drammatico ed assolutamente comune: Lester Burnham (Kevin Spacey) ha problemi a lavoro, ha problemi con la frigida moglie (Annette Bening) e pure con la figlia (Thora Birch).

American Beauty, nel suo incedere tranquillo e assolutamente non eclatante, parla proprio, con ironia, della Bellezza (con la B maiuscola, si intende) di ritrovarsi a quarant’anni e capire che la vita è semplicemente noiosa.

Quando vicino ai Burnham si trasferiscono i Fitts (padre colonnello in pensione, madre succube e passiva, figlio ribelle) la vita delle due famiglie cambia radicalmente. Il figlio ribelle dei Fitts, Ricky, silenzioso e strano, si innamora della figlia dei Burnham, Jane, perché riesce ad andare oltre il concetto stesso di Bellezza trovando l’amore puro, incondizionato; Lester Burnham si prende una cotta per l’amica della figlia, Angela Hayes, la più carina della scuola, perché ha trovato, a suo modo, la Bellezza che sembrava essergli sfuggita da tempo. Contornano le storie principali l’amicizia di Lester per Ricky, che gli passa l’erba, e lo fa tornare ai vent’anni, quando la vita era tutta canne e rock’n’roll e l’essenza stessa della Bellezza sembrava essere a portata di mano; la sboccata storia d’amore tra Carolyn Burnham, moglie di Lester, che, curiosamente, il sogno americano ancora lo va cercando, e Buddy Kane (Peter Gallagher) che rappresenta tutto ciò che lei cerca in un uomo: soldi, successo e determinazione; il difficile rapporto tra il colonnello Fitts (Chris Cooper), irriducibile conservatore dedito alla disciplina, e suo figlio Ricky che, in maniera mai troppo evidente, si prende tranquillamente gioco di lui.

L’intero film si sviluppa su questi elementi, in un intreccio tutto sommato semplice ma mai scontato. La bellezza del nome del film (che tra l’altro è una qualità di rose, quelle che cadono sul corpo nudo di Angela, nei sogni di Lester e un disco dei Grateful Dead del 1970) è la costante di tutte le storie, perché è semplicemente questo che i personaggi cercano, niente più: il concetto assoluto di Bellezza in ogni sua variante o accezione. Non è vero che non importa come arrivare a tale Bellezza, il cammino è la parte più difficile e controversa, il film ne è fulgido esempio, specie nel finale, in cui uno dei protagonisti verrà sopraffatto non tanto dalla Bellezza quanto dal suo esatto contrario, la paura, e allora lo splendido incipit del film avrà un senso: Mi chiamo Lester Burnham. Questo è il mio quartiere, questa è la mia strada, questa è la mia vita. Ho quarantadue anni, fra meno di un anno... sarò morto. Naturalmente io questo ancora non lo so. E in un certo senso sono già morto.

Vincitore di 5 premi Oscar nel 2000.

2 commenti:

Seconda serata ha detto...

Bell'analisi. A me rimarrà in testa Lester che cade sul pavimento...quell'espressione...

OT (ma neanche tanto):
Nel Torneo che ho organizzato si votano film e attori già candidati dall’Academy, con l’aggiunta della categoria Miglior film escluso e Miglior film italiano dell’anno.
Siamo arrivati ai premi quinquennali, 2000 – 2004, ma ogni settimana si votano gli Oscar veri e propri, e ci sono ancora dei questionari aperti.
Il link è questo:
http://iltorneodeglioscar.blogspot.com/2010/02/oscar-del-quinquennio.html

Osso di Lupo ha detto...

grazie!

Ho visto il torneo, bell'idea davvero, ho cominciato a compilare qualcosa ;)