domenica 30 marzo 2008

Cathedral



"Stained Glass Stories", 1976


Continuiamo a parlare di progressive con un'altra perla persa nel tempo.


I Cathedral di questo splendido disco, "Stained Glass Stories" sono un pacato gruppo americano (non il gruppo doom metal di dubbia levatura artistica di Lee Dorrian), che ha vissuto lo spazio di un disco e poi è sparito, un po' per le vendite (pochine) e un po' perché il progressive che hanno cercato di incastonare nel loro unico disco stava già perdendo colpi.

Nel 1976, anno della prima pubblicazione di questo gioiellino, le maggiori band progressive organizzavano cambi di rotta (Yes, Genesis) e quelle nate da poco (Rush, Camel) indirizzavano questo genere musicale verso altre spiagge. Nonostante tutto, i Cathedral, sembravano vivere in un oasi incontaminata, dove il tempo si era fermato (intorno al 1972) e dove poter tranquillamente registrare un disco di musica progressive sinfonica sul modello dei grandi gruppi inglesi che avevano fatto storia.
Il loro sound non brilla per originalità è vero, i riferimenti agli Yes si sprecano, tuttavia non manca una certa ricerca verso la sperimentazione e un uso veramente superbo di alternanza di momenti melodici, notturni, catartici ad altri più movimentati, con ritmiche impegnative e complesse che crescono poco a poco fino ad esplodere. Il disco non è facile da ascoltare: non lo si può mettere sul piatto (la versione in cd è praticamente irreperibile) e poi lo si lascia andare. I brani catturano per la loro precisione, perfezione e per la presenza di numerosi strumenti contemporaneamente: accade spesso che la voce eterea e sognante di Paul Seal venga accompagnata da organi, chitarre acustiche, percussioni e strumenti classici senza mai però saturare il suono. Nessuno strumento prevale sugli altri e questo crea intensi passaggi strumentali in bilico tra il caos organizzato dei King Crimson più sperimentali e il classicismo sinfonico degli Yes. Massimo esempio di tali espedienti è il brano che apre il disco, "Introspect", piccola suite dove certamente non mancano le idee e quella sperimentazione di cui parlavo. La soffice chitarra di Rudy Perrone risalta nella parte finale del brano con assolo tipicamente progressive e riprese melodiche fino alla superba chiusura acustica.
Il brano successivo, "Gong" mantiene le promesse. Uno strumentale eccelso, tra momenti sognanti con acustiche e tastiere orchestrali e accelerazioni assolutamente integrate nel procedere della traccia. Di nuovo la chitarra di Perrone descrive melodie mai banali nell'assolo che sfocia in un arpeggio di indubbia levatura tecnica non solo da parte del chitarrista ma del gruppo intero. Si passa al lato B del disco. Un coro da chiesa introduce quello che sicuramente è il brano più sperimentale di tutta l'opera: "The Crossing". Impossibile non ripensare ai Genesis mentre lo si ascolta, soprattutto è la voce di Seal a trarre in inganno ricordando il timbro di Peter Gabriel, specialmente negli acuti. La parte strumentale tuttavia è molto personale e rientra perfettamente nei canoni stilistici descritti precedentemente. "Days & Changes", introdotta dalla sola voce di Seal, si presenta come un brano più melodico e rilassato ma riprende quasi subito le rotte ideali del gruppo. Il sound questa volta è marcatamente Yes, a passaggi orchestrali di organo si alternano staccati tecnicamente impeccabili che coinvolgono principalmente il basso e la batteria mentre Perrone da sfogo alle sue voglie chitarristiche sempre molto pacate. Il brano si chiude ad anello riprendendo il tema corale iniziale. Per chiudere, la seconda suite: "The Search". L'inizio è meno nervoso rispetto ad "Introspect" e l'introduzione strumentale lascia spazio al cantato sempre molto sentito di Seal. La melodia vocale, che nella traccia risalta maggiormente, è sicuramente la migliore del disco. Brevi staccati senza voce tra una strofa e l'altra danno pathos al brano che sembra crescere in un climax dove si aggiungono strumenti e la batteria prende velocità. A chiudere il tutto lunghi accordi di organo dove gli influssi dei King Crimson del primo periodo e dei Genesis di Gabriel sono sempre evidenti. Preciso che questi continui paragoni non sono per minimizzare il gruppo quanto per dare a chi legge una vaga idea della complessità veramente straordinaria di questo album.
"Stained Glass Stories", come ho già detto, è un disco uscito in un periodo sfavorevole per il progressive più classico ma che possiede così tante qualità che andrebbe riscoperto e rivalutato con la giusta attenzione. Un gruppo, i Cathedral di New York, che cercava un identità e purtroppo non è riuscita a trovarla appieno e che, malgrado tutto, ci ha regalato un piccolo gioiello che sta a noi sfruttare. Possibilmente al meglio.


Voto: 9/10

Le idee non sono sempre originali e l'ispirazione ai grandi del progressive inglese penalizza un po' ma è pure vero che la sperimentazione (soprattutto in alcuni brani) ha un ruolo primario in tutta la produzione.

mercoledì 26 marzo 2008

Balletto di Bronzo



"Il Re Del Castello" 1990


Per gentilissimo omaggio di un mio grande amico ho potuto apprezzare questo splendido disco di un gruppo che, aimè, non ha la fama che merita. Il Balletto di Bronzo è uno di quei gruppi italiani caduti nel dimenticatoio (gli Osanna, i Trip, il Rovescio della Medaglia, chi se li ricorda?) che però prima di una tale sconsiderata sorte avevano, nel loro piccolo, dato qualcosa alla storia della musica. Il gruppo in questione aveva pubblicato due dischi: Sirio 2222 e il bellissimo Ys (addirittura per la Polydor!) che è un autentico gioiello di progressive di matrice italiana. A differenza dei loro colleghi più illustri (Banco del Mutuo Soccorso, Premiata Forneria Marconi, Perigeo, New Trolls) i Bronzi avevano esplorato più avidamente i sentieri di un prog decisamente più hard, andando a realizzare una notevole sintesi di hard rock di matrice britannica (forte l'influsso dei Jethro Tull prima maniera [This Was per capirci]) e un progressive romantico tipico delle band allora in voga. Il risultato, magistrale, lo si può apprezzare in Ys (1972), quando i nostri erano apprezzati da pubblico e critica mietendo successi.

Il disco di cui vado a parlare però è una perla rara. Innanzitutto è una tiratura limitata (10.000 copie, scusate se è poco, disponibile solo in vinile), uscito nel 1990 sulla famosissima rivista Raro! (tutt'oggi in stampa), e raccoglie del materiale scartato dal gruppo tra il 1969 e il 1970. La solita schifezza, penserete.

E invece no. Sul primo lato compare la bellissima Accidenti (un amore finito male...), un brano che comincia con un madrigale e continua con intermezzi di chitarra solista (un Lino Ajello semplicemente incisivo) con una melodia sognante ed evocativa. Ammetto che nelle parti cantate ricorda ECCESSIVAMENTE "A Salty Dog" dei Procol Harum e probabilmente è per questo che non è mai finita su di un disco ufficiale, ma sinceramente è un qualcosa che non guasta la bellezza della canzone, non per altro perchè è cantata in italiano. Il brano successivo è "Il Re del Castello", uno strumentale. Sempre sulla falsa riga dei Procol Harum più energici, Ajello da una prova di maestria chitarristica di cui il prog italiano, con tutta franchezza, ne aveva veramente bisogno. A chiudere il lato A la versione strumentale di Neve Calda, perla del pop italiano dei tempi che furono, appesantita per l'occasione e, secondo me, ancora più evocativa della versione cantata.

Il lato B è inaspettato, un vero bijou per collezionisti: le versioni registrate per il mercato spagnolo dei singoli del Bronzo fino ad allora usciti. Niente male no?


Voto: 8/10

Se riuscite a trovarlo è un disco che vi lascerà stupefatti, non per altro perchè è materiale scartato! E la cosa da da riflettere... immaginate quanto può essere bello Ys!


Un ringraziamente particolare al mio amico Giorgio, senza il quale non avrei mai conosciuto questo splendido disco... per di più a gratis!!!

martedì 25 marzo 2008

Into The Wild



di Sean Penn, con Emile Hirsch, William Hurt, Marcia Gay Harden, Jena Malone, Vince Vaughn


Premetto col dire che questo è senza dubbio uno dei migliori film che io abbia mai visto. La verità è che un film dal genere da Sean Penn non me lo aspettavo. Voglio dire, i precedenti film da lui diretti non sono un trionfo di cinematografia (anche se Lupo Solitario con il grande Mortensen merita non poco...) e sicuramente essendo questa la quarta (quinta se si conta un documentario sull'11 settembre) prova dietro la cinepresa mi aspettavo un film stanco e anche un pò noioso.

Quanto sbagliavo. Nonostante la regia non sia di alta classe (Dennis Hopper lo avrebbe sicuramente fatto meglio) la storia e la sceneggiatura sono praticamente perfette, senza sbavature, nè punti in sospeso nè vuoti narrativi. Poche volte mi è capitato, in sala, di desiderare che il film non finisca mai, perchè la vicenda di Christopher McCandless, aspirante hippie, tiene veramente col fiato sospeso e l'interesse non scema mai.

Così dalle prime inquadrature si entra nel mondo (selvaggio) di un vero e proprio elogio alla libertà di essere e di vivere, in un viaggio interiore sui significati di vita, felicità e libertà stessa. Basato su di un fatto vero, Christopher McCandless (nel film si ribattezza Alex Supertramp) parte per un viaggio verso il nord in compagnia dei suoi libri e di pochissimi altri oggetti (io ho visto solo un rasoio...) alla ricerca della sua interiorità e soprattutto per scrollarsi di dosso i pesanti fardelli dell'ipocrisia e della borghesia, stillati con veemenza dai genitori. Il tutto coadiuvato da una colonna sonora fantastica firmata da Eddie Vadder che per una volta ha lasciato perdere le tematiche grunge dei Pearl Jam per abbracciare profondamente i concetti di libertà e spirito di intraprendenza che pervadono il film e, di conseguenza, anche le musiche.

Da notare i continui riferimenti a libri e citazioni da Tolstoj a Jack London (anche se lo spirito più comune al film sarebbe quello di Sulla Strada di Keruack) e una frase bellissima che Alex dice alla ragazza incontrata in una delle comunità hippie: "Se vuoi qualcosa nella vita, allunga la mano e prendila"


Voto: 9.5/10

Film perfetto che con una regia di classe sarebbe stato ancora più emozionante. Sicuramente una delle pellicole più belle degli ultimi anni, personalmente è tra i miei dieci film preferiti.
Appunto personale: se Sean mi avesse chiamato durante il montaggio gli avrei amichevolmente suggerito, con l'aggiunta di una modesta somma di denaro puramente simbolica, una perfetta canzone per la chiusura, da mettere sui titoli di coda e nelle ultime inquadrature: Find The Cost Of Freedom (trova il prezzo della libertà!) di Stephen Stills. Allora il film sarebbe stato veramente perfetto.

martedì 18 marzo 2008

King Crimson


"In The Court Of The Crimson King", 1969


Possiamo dire che il progressive rock stava nascendo nella metà degli anni 60 in Inghilterra. Ce ne erano tracce nelle sperimentazioni dei Beatles ("Revolver"?), in "Their Satanic Majesties Request" degli Stones, e anche in America (ma meno accentuate) tra le improvvisazioni lisergiche dei Grateful Dead e degli Hawkwind e soprattutto nelle opere buffe di Frank Zappa ("Lumpy Gravy"). Tuttavia il genere era un concetto ancora in via di sviluppo: quegli artisti non sapevano che stavano facendo progressive nel vero senso della parola. La consapevolezza arriva nel 1969 grazie ad un disco dalla portata storica impressionante: "In The Court Of The Crimson King". Posso quindi asserire, nel pieno delle mie facoltà mentali, meno di quelle motorie, che Robert Fripp, leader assoluto del gruppo e chitarrista di gigantesca perizia tecnica, ha creato il primo vero e proprio disco di progressive rock.

La curiosità, tuttavia, sta nel fatto che il primo vero brano di questo nuovo genere ha radici tutt'altro che nuove: "21st Schizoid Man", prima traccia del disco, fonda elementi di acid jazz, blues hendrixiano e hard rock tutt'altro che innovativi. Il brano è impressionante: si basa su di un giro di chitarra e basso al quale gli esperti hanno addirittura attribuito l'etichetta di proto-metal! In effetti è un brano tiratissimo, di difficilissima esecuzione e di una pesantezza assolutamente inconcepibile per un disco del 1969! Da allora, nel 1970, è nato il vero hard rock (Deep Purple, Black Sabbath, Uriah Heep ecc) e anche le varie forme di progressive che dilagheranno per tutti gli anni 70.

Tolto il primo brano quindi, (che è il risultato del calderone: progressive, appunto), le altre stupende tracce attingono direttamente dalla tradizione romantica inglese, con incursioni di sofisticatissimo pop ("I Talk To The Wind"), e rimandi alla scena rock di Canterbury (più avanti maggiormente esplorata dai Caravan e dai geniali Hetfield & The North) con il brano "Epitaph" e la psichedelia estrema della lunghissima "Moonchild". A chiudere l'album torna il magnifico progressive sinfonico di "The Court Of The Crimson King", che fonde tutti gli elementi finora analizzati, raggiungendo la perfezione stilistica senza troppe cerimonie.

"In The Court Of The Crimson King" è considerato quindi il primo disco al quale l'etichetta progressive calzava alla perfezione. L'impatto commerciale non fu immediato (ora è uno dei dischi più venduti di sempre) mentre critica e appassionati di musica sofisticata lo elevarono direttamente a capolavoro assoluto. La bravura tecnica del quartetto (tra gli altri anche Greg Lake al basso e alla voce solista) era indiscutibile e, a guardarli ora che Robert Fripp sforna ancora album (certo ogni volta con una formazione diversa), sono l'unico gruppo che è nato progressive e continua progressive, qualcosa vorrà dire no?


Voto: 10/10
La portata storica dell'album è indiscutibile, i brani sono uno più bello dell'altro, la capacità tecnica verrà superata solo nell'irraggiungibile "Island" del 71.

lunedì 17 marzo 2008

The Rolling Stones


"Some Girls", 1978

C'è chi dice che la carriera degli Stones è finita nel 1972, ai tempi di "Exile On Main St.". Convinti detrattori dicono che solo i primi due album valgano la pena di essere ascoltati. Le persone normali invece hanno adorato questo gruppo in ogni loro album e i fan più sfegatati (cough, cough) hanno apprezzato anche "Undercover" del 1983. "Some Girls", uscito nel 1978, è il loro disco più venduto in America, forse perchè avevano abbandonato il blues estremo di "Goats Head Soup" (1973) e Ron Wood si era finalmente ambientato sfornando un disco di sana cattiveria rock'n'roll nello stile più Rolling possibile. Bisogna dirlo: per quanto mi riguarda negli anni settanta non c'è un disco degli Stones che non valga la pena di essere adorato, però questo qui ha tutte le carte in regola per essere considerato uno dei più importanti della loro carriera, superando di un pelino il capolavoro precedente "Black & Blue"(e ce ne voleva!). Certo, c'è da dire che nel 78 andava di moda la disco music e gli Stones sono riusciti ad arruffianrsi gli Stati Uniti (maggiori consumatori di disco music ma anche i più grandi appassionati di Stones) con un trucchetto chiamato "Miss You", la prima traccia dell'album in questione. Una canzone leccaculo in maniera selvaggia, che ti prende in maniera orribile e ti costringe a cantarla per ore ed ore. Mick e Keith sono stati altrettanto furbi: dissero che si trattava di funky... si, funky, così avevano evitato l'imbarazzante etichetta "disco" che avrebbe pesantemente sfigurato in un disco di rockettari fino al midollo. Così "Miss You" diventa il singolo più venduto di quell'anno e porta "Some Girls" ai vertici di tutte le classifiche. Gli Stones però erano furbi: d'accordo "Miss You", ma il resto dell'album è una bibbia indiscutibile del Rock'n'Roll. "When The Whip Comes Down" la suonano ancora ai concerti così come quel capolavoro di "Shattered"; "Some Girls" (il brano vero e proprio) poi aveva risvegliato il machismo duro (parecchio duro) e puro (molto puro) di Jagger, con un testo di un sessismo imbarazzante ("some girls take my money, some girls take my clothes, girls just wanna get fucked all night" tanto per citare qualche frase) esplodendo in un blues sporco e ruvido che non si sentiva dai tempi di "Midnight Rumbler" (1969). Sul disco compare anche una perla del pop come "Just My Imagination" e la ballata per eccellenza degli Stones, "Beast Of Burden", una delicata riflessione sullo stato delle cose da parte di Mick che sfocia, non ho mai capito come, in un implorazione esplicitamente sessuale... beh gli Stones sono soprattutto questo.
Al chiudere il tutto una copertina fantastica che funge da catalogo di parrucche con le facce dei nostri e un libretto che è in realtà un altro catalogo, sta volta di reggiseni (arf!), dell'epoca.

Voto: 8/10
perchè 9 lo darei a "It's Only Rock'n'Roll" (10 a tutti quelli prima ovviamente) e questo disco non ha la stessa violenza.

lunedì 10 marzo 2008

Elvis Presley


"Aloha From Hawaii", 1973



La sensazione di quando compro un disco nuovo di Elvis Presley è sempre la stessa: come ho fatto a campare senza fino ad'ora?
Acquistata oggi la nuova edizione del famoso concerto alle Hawaii del 1973 del Re, il primo concerto rock mai trasmesso in mondovisione... MONDOVISIONE! Quell'anno, di preciso il 14 Gennaio, il mondo intero ha avuto l'occasione di vedere sua maestà Elvis Presley in tutto il suo splendore, in un concerto di un'ora e mezza in cui mostrava la sua immensa superiorità per quanto concerne la materia rock'n'roll. Un dio. In questa edizione completamente nuova e rimasterizzata basta attaccarsi alle cuffie ad un volume spropositato e lasciarsi trasportare dalla grandezza inquietante di un uomo che ha semplicemente scritto la storia della musica.
Un concerto immenso, stupendo, magnifico, c'è tutto: dal rock'n'roll, al blues (la versione più bella mai sentita di Steamroller Blues di James Taylor), al soul (My Way di Sinatra fatta da lui fa un certo effetto).
Era un Elvis in stato di grazia, con una band perfetta (il grande James Burton alla chitarra e Glen Hardin al piano!!!), che parlava ancora con il pubblico e si divertita, si sente che si divertiva cazzo! ...purtroppo i concerti dal 75 in avanti, per quanto perfetti dal punto di vista tecnico, mancano di questa spontaneità, sarà che stava imbottito di robe... vabbè...
Beh, ancora lo sto ascoltando a tutta manetta... questa non è una recensione critica in effetti... un pò di parte magari, ma come si può criticare il Re?
Si può?
Dieci secco

Voto: 10/10
E' il Re

domenica 9 marzo 2008

Sweeney Todd


di Tim Burton, con Johnny Depp, Helena Bonham Carter, Alan Rickman.

Ho aspettato un pò prima di andare a vedere questo film. Ero diffidente lo ammetto, perchè Tim Burton non mi ha mai convinto. Diventato ormai più un fenomeno mediatico, gadgets e pupazzetti vari, il suo talento registico è sinceramente non all'altezza delle aspettative. Questo film è la prova che Burton continua a fare sempre le stesse cose, dimostrando come non si sia mosso dalla formula creata (allora era una cosa nuova però) ai tempi di Edward Mani di Forbice nel lontano 1990, e cioè della favoletta dark con un Depp che si discosta solo lontanamente dai clichè di tutti i film realizzati con l'amico regista. E a difettare in questo nuovo film è proprio la regia: misera, senza un minimo di tecnica, scontata e per niente originale. Diciamo molto meglio le musiche, perchè di musical si tratta, davvero interessanti, anche se non rimangono nella mente dell'ascoltatore. Due parole a parte vanno a Dante Ferretti e a sua moglie Francesca Lo Schiavo che hanno ricreato l'universo visionario di Burton (e vinto gli Oscar relativi), una Londra perennamente oscurata dove il colore più vivido è il sangue versato dalle lame affilate dei rasoi di Todd. E veniamo alla trama, altro punto debole dell'intera produzione. Avete presente il Conte di Montecristo di Dumas? Bene, è più o meno una vaga rivisitazione. Todd è messo in prigione per quindici anni, perchè un giudice senza scrupoli (uno splendido Alan Rickman [il Piton di Harry Potter]) è innamorato di suo moglie, allora per averla tutta per se lo sbatte in prigione. Una volta tornato a Londra, Todd farà vendetta "purificando" la città nel suo personalissimo modo, in un trionfo di cattivo gusto ai limiti dello splatter. Ad abbassare ulteriormente il livello qualitativo del film sono i colpi di scena: talmente scontati e prevedibili che la pellicola comincia ad annoiare e bisogna godersi le musiche per resistere e non uscire dal cinema.
In sunto un film che Burton poteva veramente evitare, perchè va bene le favolette dark (la Sposa Cadavere era molto più interessante) ma dopo un pò ci si stufa.

Voto: 4/10
Si salvano le musiche, Depp ha una voce gradevole e la scenografia tutta italiana.

Mi presentai

Piacere, Marco
Nato così un direi nuovo et inedito blog sulle tre meravilliose arti che illuminano l'aenimo humano: la musica, la letteratura et il cinema.
A breve metterò proprio quivi i saggi sugli argomenti quali sopra, che con tanta fatica quanto sudore scrivo invece di studiare.
Ossequi dal vostro amico porpora