mercoledì 7 ottobre 2009

Kiss



Sonic Boom
Roadrunner Records, 2009


Non nascondo una certa emozione nello scartare l'edizione limitata del nuovissimo disco dei Kiss. I Kiss sono, in assoluto, una delle più grandi band rock'n'roll del pianeta, proprio per la loro grandezza sono stati (e saranno sempre) contestati, ma questo, in tutta franchezza, non ci interessa. Ad interessarci è la loro ultima fatica discografica, Sonic Boom, dopo la bellezza di 11 anni da Psycho Circus, disco tutto sommato più che dignitoso, ma completamente diverso da quest'ultimo.
Lo dico con assoluta sicurezza ed orgoglio (si, i Kiss sono uno dei miei gruppi preferiti!): Sonic Boom riprende le sonorità grandiose degli anni 70 e le aggiorna al presente, con un sound più corposo ed una pulizia del suono stupefacente.
Tanto prolifici nei 70, il decennio in cui i Kiss hanno scritto la storia, così come nei più deludenti (a parte qualche perla come Creatures Of The Night), il nuovo millennio li ha visti protagonisti di qualche tour commemorativo e di nessun disco in studio. Per questo motivo Sonic Boom ha dello stupefacente. Era piuttosto facile infatti aspettarsi un disco stanco, come lo erano stati Unmasked alla fine dei 70 o Carnival Of Souls per i 90, invece Sonic Boom, come già detto, compie un salto verso il periodo d'oro con brani di una freschezza incredibile per un gruppo che le male lingue volevano già finito da un pezzo.
Due parole sui brani (non voglio dilungarmi troppo perché voglio lasciare il piacere all'ascoltatore). Il pezzo che apre l'album, Modern Day Of Delilah, riprende le regole dell'hard rock canonico e le impone al resto dell'album. Never Enough sembra uscire da Rock'n'Roll Over (capolavoro del 1976) così come la seguente Yes I Know. All For The Glory rallenta il ritmo tentando la melodia ma non è la classica ballatona metal. Un applauso a parte a Tommy Thayer che regala un solo di chitarra veramente da manuale. I'm An Animal, dal riff assassino, è a mio parere il miglior brano non solo del disco, ma dei Kiss in generale. E' proprio grazie ad un pezzo del genere che il gruppo in questione si distacca dalle tonnellate di dischi rock usciti in questo periodo: qui si sente la qualità, la bravura del gruppo, l'esperienza ultra trentennale di gente che di rock'n'roll ci ha vissuto e soprattutto ne ha scritto le regole. A chiudere il tutto Say Yeah, classico inno kissiano, che sarebbe stato in sintonia con i brani di Destroyer.
La line up vede Paul Stanley e Gene Simmons (ovviamente), alternarsi come al solito al canto e Tommy Thayer, ottimo musicista che esegue assoli di fattura veramente notevole senza stravolgere il sound del gruppo, anzi, coi Kiss sembra averci suonato da sempre. Eric Singer, veterano delle pelli e dei Kiss stessi, compie il suo lavoro più che dignitosamente, tessendo un tappeto ritmico preciso, incisivo, ma mai invadente.

Voto: 10/10
Questo disco è un capolavoro, c'è poco da girarci intorno. Certo sarebbe stato bello aver avuto un disco con la reunion completa (Ace Frehley e Peter Criss) ma sarà che il risultato è talmente emozionante che non ci possiamo assolutamente lamentare. Il lavoro può essere visto sotto due aspetti: l'amante del rock lo vedrà come il raggiungimento del Graal, cioè il ritorno di un gruppo di qualità eccelsa al sound che li ha resi famosi; il pignolo alla ricerca del sensazionale potrebbe avere da ridire perché qui non c'è niente di nuovo.
Ed è questo il bello, rock'n'roll suonato all'ennesima potenza.
Grazie Kiss.

martedì 17 marzo 2009

Il Progressive Italiano n.3


Osanna


Palepoli


Fonit Cetra, 1973




Agli Osanna viene accreditato nientemeno che uno dei dischi più belli del progressive italiano, Palepoli appunto. Non mi permetterò assolutamente di dire il contrario.


Gli Osanna ( Lino Vairetti, voce e tastiere; Danilo Rustici, chitarra, organo e cori; Lello Brandi, baso; Massimo Guarino, batteria; Elio D'Anna, flauto e sax) nascono a Napoli nel 1970 da due altri gruppi importanti per il genere, i Volti di Pietra e i Città Frontale. Si distinguono subito per la complessità della loro musica e per il loro particolare presentarsi in scena: truccati e mascherati. I loro concerti, rigorosamente nei teatri, saranno più vicini a rappresentazioni musicovisive che a semplici riproposizioni dei loro brani. Leggenda vuole che i Genesis, che intrapresero un breve tour con loro nel 1972, si siano ispirati proprio a loro per le affascinanti scenografie e gli sgargianti abiti di scena di Peter Gabriel.


Con il primo disco, L'uomo, vengono positivamente accolti dal pubblico, grazie alle loro splendide melodie, la musica articolata e i testi poetici. Il secondo disco (Preludio Tema Variazioni e Canzona), quasi tutto strumentale, è la colonna sonora del film Milano Calibro 9 ma è con il terzo disco, Palepoli, di progressive cristallino, allo stato puro, che entrano di diritto nell'olimpo del genere.


Difficile descrivere minuziosamente questo album. Contiene due lunghe suite di venti minuti l'una e un brano che funge da introduzione del secondo lungo movimento. Oro Caldo, il primo brano, comincia con un canto mediterraneo sopra un accompagnamento tribale, mentre verso il secondo minuto comincia la prima (di numerose) sfuriata elettrica dove un ottimo Danilo Rustici compie mirabolanti fraseggi di chitarra. Tutto il brano si regge su questa alternanza di piano/forti, momenti più intimi dove risalta il flauto, arpeggi che ricordano i Genesis più tranquilli in contrasto a crescendo dove l'intero gruppo compie un ottimo lavoro di cucitura tra i
vari strumenti perfettamenti amalgamati. Seguono inserti di Moog e sax sotto un testo decisamente poetico. Gli echi, se proprio vogliamo trovarli (ma solo per farsi un'idea), sono quelli dei King Crimson di In The Wake Of Poseidon, i Jethro Tull di Thick As A Brick e la chitarra wah di matrice Hendrixiana, alle volte, di chiara ispirazione Robert Fripp, altre volte. Notevole a metà del brano un lungo intersecarsi di flauto e chitarra molto distorta che sfocia poi in un blues lento e sanguigno.



Stanza Città è il punto di raccordo tra i due brani. Un pezzo orientaleggiante con voci registrate al contrario (molto in voga all'epoca) e flauti che sfocia direttamente nella lunga suite Animale Senza Respiro. Che dire di questo brano se non che è un capolavoro assoluto? Ha un inizio dai toni decisamente gravi, un arpeggio soffuso di chitarra che sorregge le prime strofe cantate fino all'entrata della batteria. Poi la prima sfuriata di chitarra e la seconda parte del brano, più serrata, dalle tinte hard, jazz e fusion. Questa volta il riferimento va ai Soft Machine più lisergici e pesanti. Di indubbia bellezza il riff di sax e chitarra che ricorda vagamente i King Crimson del primo disco. Il brano nel complesso è decisamente più duro, meno sognante del precedente, un vero e proprio atto di maestria da parte di questo splendido gruppo. Termina con lunghe note di Moog, tappeto per gli assolo di chitarra e flauto (non mi dilungherò troppo su questo brano perchè, è ovvio, va ascoltato completamente per farsene un'idea compiuta).



Voto: 10/10 Un disco assolutamente perfetto, imperdibile per ogni appassionato di progressive italiano o estero che sia.

giovedì 12 marzo 2009

Il Progressive Italiano n.2


De De Lind


Io non so da dove vengo e non so dove mai andrò, uomo è il nome che mi han dato

Mercury, 1973


Brutto scherzo quello che hanno fatto ai De De Lind: sciolti dopo l'uscita del primo ed unico disco per l'insuccesso commerciale, oggi sono completamente rifioriti e apprezzatissimi in campo progressive grazie all'azzeccata ristampa della major Mercury. Peccato. Se avessero avuto subito successo, e non trent'anni dopo, forse avrebbero potuto anche sfornare qualche altro capolavoro.

Comunque cominciamo dal principio: i De De Lind, milanesi, nascono in realtà nel 1969 come gruppo beat incidendo alcuni singoli di modesto successo (Anche se sei qui / Come si fa?) per poi esibirsi in concerti e manifestazioni del beat italiano. Nei due singoli successivi (Mille anni / Ti devo lasciare, 1970; Signore dove vai? / Torneremo ancora, 1971) cambiano già sonorità, abbandonando il beat degli esordi a favore di un rock decisamente più cruento, perfettamente in linea con le tendenze del momento. I singoli vanno piuttosto bene ma si dovrà aspettare il 1973 per l'uscita discografica vera e propria, un gioiello elevato a capolavoro del genere progressive, che corrisponde al nome chilometrico di Io non so da dove vengo e non so dove mai andrò, uomo è il nome che mi han dato. Come dicevo nel 1973 il disco non ebbe grande successo, il loro prog intimista e malinconico non aveva, a quanto pare, lo stesso mordente dei "fratelli maggiori", la Premiata Forneria Marconi e del Banco del Mutuo Soccorso.
Tuttavia, ora che la Mercury ha ristampato l'LP è possibile acquistare questo splendido disco ad un prezzo modico e non più alle cifre astronomiche da collezionismo.

I De De Lind, mi preme dirlo, sono a loro modo unici. A differenza degli altri illustri colleghi, il loro pregio sta nell'aver unito (prima di tutti specifico) l'hard rock alle architetture del progressive. Le chitarre "pesanti" del rock più duro, difficilmente trovavano spazio nel progressive (la PFM effettivamente non ci andava leggera in quanto a chitarre, ma qua si parla di riffoni duri alla Black Sabbath). Il caso più notevole è sicuramente la splendida suite che apre il disco, Fuga e Morte, un fantastico brano che sembra l'incontro ideale delle atmosfere melanconiche dei Sabbath e i passaggi acustici di Aqualung dei Jethro Tull. Vi sono infatti interessanti passaggi di chitarra acustica e flauto (Gilberto Trama) in mezzo alle sfuriate elettriche dell'ottimo chitarrista Matteo Vitolli. Un sound intimista che riflette in pieno il crepuscolarismo del testo (correvo per sentieri, per strade senza fine, regnava nero il buio, compagno era il mio affanno, cercai di dare un grido ma ormai ero già morto). Un azzeccato intervento di sax elettrico (sax effettato con un pedale da chitarra, geniale!) fa cominciare il secondo brano, Indietro nel Tempo, e poi Paura del Niente, a mio avviso il pezzo forte dell'album, molto influenzato dal sound dei Jethro Tull. Nell'inizio l'atmosfera è ancora più nichilista (sopra una panchina, confuso tra la folla, un vecchio che pareva scolpito nella pietra), impossibile non pensare a De Andrè, sul finire invece parte un furioso pattern di batteria, con un basso incalzante e un solo di chitarra semplicemente fantastico, il tutto, come direbbe un mio amico, "decisamente prog!". Molto bella comunque la scelta di terminare il brano con un intervento solista del flauto dopo che il gruppo, nell'intermezzo strumentale, ha decisamente dimostrato di sapere il fatto suo.

Il lato B si apre con la traccia Smarrimento, continuando il percorso sonoro di Paura del Niente: un lungo intro di flauto e poi passaggi che obiettivamente non ci si aspetta, chitarre molto forti e un crescendo sonoro che non è altro che l'ingresso per un arpeggio di chitarra soffice e melodioso, base a sua volta del cantato altrettanto dolce di Vito Paradiso.
Cimitero di Guerra ha un andamento maestoso, quasi inquietante, un accompagnamento psichedelico dei migliori Velvet Underground e poi l'esplosione elettrica con un duetto di flauto/chitarra veramente bellissimo. Notevole come le parole del testo aderiscano perfettamente alla musica suonata egregiamente dal quintetto. Voglia di Rivivere presenta il testo migliore (il mio tempo se ne va con gli eroi dell'età dei giganti), brano acustico lento e sognante, sembra il congedo che invece spetta a E Poi, brano elettrico che sembra una sinfonia, sonorità decisamente più solare degli altri pezzi e il finale, un crescendo strumentale dove tutti gli strumenti si sposano alla perfezione e dove finalmente, è svelato il mistero del lungo titolo: Io non so da dove vengo e non so dove mai andrò, uomo è il nome che mi han dato.


Voto: 10/10
L'unico peccato è che i De De Lind abbiano registrato un solo album. Questo è un gioiello che qualsiasi amante del prog dovrebbe non solo avere, ma venerare!


mercoledì 4 marzo 2009

Il Progressive Italiano n.1


Pooh

Parsifal, 1973


Inauguro con questa recensione una "rubrica" dedicata interamente al progressive italiano, genere al quale sono molto affezionato e che, in mia opinione andrebbe decisamente rivalutato. Vi accorgerete, seguendo i dischi di cui mano a mano parlerò, che in Italia, in particolare negli anni 70, sono state fatte cose veramente grandiose!

Bando alle ciance comincio questa rubrica con un gruppo che effettivamente col progressive ha poco a cui spartire. Complimenti per la coerenza, direte, eppure ho le mie buone ragioni.

Ammetto che parlare oggi dei Pooh fa un pò sorridere, tutti conoscono le loro canzoni pop più famose (Uomini soli, Piccola Ketty, Pensiero, Chi fermerà la musica ecc) e ammetto pure che mi fa anche un certo effetto parlare di questo gruppo sapendo che tra pochi giorni andrò a vedere i Judas Priest ad un festival metal. Tuttavia, quello che non tutti sanno di loro, è che negli anni 70, precisamente tra 1973 e 1975, i quattro Pooh hanno composto tre tra gli album più belli della nostra sottovalutata musica leggera. Il primo di questo, Parsifal, è una perla assoluta del genere, un album fantastico che coi Pooh che verranno dopo ha veramente poco cui spartire. Ora vi spiego perchè.

Alla fine degli anni 60 c'era un gruppo inglese che spopolava in maniera oserei dire oceanica. La loro idea geniale fu quella di unire al pop le melodie della musica classica.. Rispondono al nome di Procol Harum, il mastodontico gruppo autore di quell'immane brano che è Whiter Shade Of Pale. Il loro successo fu grandissimo, anche da noi in Italia (rilasciarono anche un singolo nella nostra lingua, la splendida Il Tuo Diamante).

Di fronte a tale successo, molto timidamente, un gruppo bolognese, cerca di emulare la formula inaugurata dai Procol Harum e comincia a suonare un rock sinfonico di chiara matrice progressive che risponde al nome di Parsifal.

Il disco si apre con L'anno, il posto, l'ora, una ballata orchestrale guidata da un arpeggio effettato del grandissimo Dodi Battaglia dove risaltano alcuni splendidi passaggi di basso di un più che meritovole Red Canzian. A fare da sfondo è l'orchestra mai troppo invadente insieme alle tastiere di Roby Facchinetti. Solo cari ricordi riflette la stessa impostazione (chitarra acustica, tastiere e accompagnamento orchestrale) ma chiude il brano uno splendido assolo di Battaglia il quale, purtroppo, è sempre troppo modesto per eseguirne di più lunghi. Tra gli altri brani da notare Io e te per gli altri giorni, un chiaro omaggio alle sonorità più morbide e melodiche dei Beatles di Revolver e soprattutto Come si fa che risente addirittura di alcune atmosfere rarefatte tanto care ai King Crimson. A chiudere l'album c'è il pezzo forte, il motivo portante di questa recensione: la suite Parsifal. Nel testo viene abbandonato il tema onnipresente dell'amore (o della ricerca di questo) e si mettono a parlare di cavalieri e follia medievale (Parsifal si riferische al Percivald che ricercava al Sacro Graal nelle leggende, anche opera di Wagner). Il brano, di dieci minuti di lunghezza, ha un incedere maestoso e assolutamente progressive, con cori operistici in sottofondo, un assolo di chitarra entrato nella storia e una lunga coda strumentale classicheggiante che riprende, oltre a Wagner anche le romantiche melodie di Bach, inframmezzata da interventi solistici di ottima levatura ancora da parte di Battaglia. Il brano per intero mette in evidenza un gusto per la musico tutt'altro che scontato. Da amante del progressive posso dire che se avessero continuato su questa scia, probabilmente, avrebbero conquistato un posto nel cuore di più radicali amatori di questo particolare genere di musica. Dimostrano una perizia tecnica che non era scontata in un gruppo prevalentemente beat e forse è stata questa ricerca sonora che non ha conquistato il pubblico italiano del periodo che, probabilmente, preferiva il beat vero e proprio o il pop più diretto.


Voto: 8/10
Su questa linea progressive/pop sinfonico, realizzeranno ancora due album Un po' del nostro tempo migliore e Forse ancora poesia, dischi che non avranno molto seguito, anche se oggi sono considerati dei piccoli capolavori. Poichè dopo si daranno al pop da classifica più sfrenato consiglio vivamente l'ascolto di questo ottimo album.

mercoledì 28 gennaio 2009

Black Rebel Motorcycle Club


"Howl" 2005



Howl viene fuori ai Motorcycle dall'amore per la loro stessa America: per il loro folk, per il loro country, blues e per la loro letteratura. Howl è il titolo della poesia più famosa del grandissimo e compianto Allen Ginsberg (amico di Dylan e poeta beat per eccellenza) solo che il disco, a differenza del poemetto, non urla nel senso stretto della parola, piuttosto stride nel panorama musicale odierno. La spiegazione è presto data: Howl è un disco elegantissimo di folk, blues americano che più americano non si può, registrato nel modo più classico (su nastro!) ed eseguito con chitarre acustiche, armoniche e voce roca. Come può non stridere un disco di questa splendida musica nel concentrato di schifezze e suoni che presunti gruppi rock odierni ci stanno elargendo?

Da appassionato di musica americana quale sono, posso dire con tutta onestà che a volte (Fault Line per esempio) sembra di ascoltare Neil Young; Howl, la title track ricorda un Dylan più sporco e trasognato mentre la splendida Promise è la ballata miglore che ho sentito negli ultimi anni. Il disco scorre che è una bellezza, tra brani tranquilli, pacati ma mai noiosi, armonie vocali estremamente accattivanti, blues lisergici e intrecci di chitarre veramente eccezionali (per quanto sempre molto soffici).

Di questi ragazzi mi ha colpito la noncuranza alla song pop da classifica anche se, chiaramente, di pop parliamo, pure se molto ma molto raffinato (basti ascoltare Weight of the World, il più pop sicuramente, che rimanda addirittura a certi Verve malinconici). Non c'è la ricerca del ritornello facile e questo non può che essere un loro pregio, poichè invece del numero alto in classifica, i Motorcycle, hanno puntato sulla qualità e, personalmente, hanno colpito nel segno.


Voto: 8/10

Un disco per chi ama il country e il blues americano, quello che si faceva una volta; per chi ricerca Bob Dylan e il Neil Young dei Crazy Horse, certe atmosfere alla Leonard Choen e, perchè no, qualche sereno attimo di dolce malinconia. Unica pecca è l'esecuzione non proprio impeccabile dei brani: si sente che vengono da musica semplice (il noise e il garage degli esordi) e che alcuni intrecci sonori non sono proprio cristallini.
ps: da notare a The Line una certa somiglianza della melodia della chitarra con High Hopes dei Pink Floyd....