martedì 2 dicembre 2008

Guns N' Roses


"Chinese Democracy", 2008

Il 2008 è stato uno degli anni più belli per il rock'n'roll. E' stato l'anno di rinascita per moltissimi grandi artisti: Metallica, Motorhead, Motley Crue, Whitesnake, Judas Priest, Ac/Dc, Uriah Heep, Van Der Graaf Generator, Black Crowes, Alice Cooper, Black Sabbath, Led Zeppelin, Scorpions ecc. Forse per qualche congiunzione astrale, o magari perchè ne sentivamo tutti veramente il bisogno, fatto sta che ognuno di questi grandi nomi ha sfornato un disco o una reunion da brivido.
Come potevano mancare all'appello i Guns'n'Roses?
Non potevano.
Cercherò di essere il più obiettivo possibile. Sono un fan del gruppo, uno di quelli che ritiene Appetite For Destruction uno dei più bei dischi mai registrati da un gruppo di alcolizzati drogati. Ho apprezzato anche il doppio Use Your Illusions e collezionato una certa serie di bootleg dal vivo della band perchè in concerto i Guns erano veramente eccezionali.
Poi si sono sciolti (dopo The Spaghetti Incident?), Axl ha preso i diritti del gruppo e ha cominciato, nel 1994, ad annunciare Chinese Democracy....
Sono passati quindici anni dall'ultimo disco dei Guns e il 21 novembre esce 'sto Chinese Democracy, il disco rock più attesto del millennio (non da me sinceramente... una volta uscito Black Ice e Motorizer ero giù più che soddisfatto...).
Ebbene io il 21 a sera mi precipito alla discoteca laziale e mi prendo tutto soddisfatto la mia copia del disco. Una volta in mano, il disco detiene già un record: ha la copertina più brutta che io abbia mai vista. Vabbè, non disperiamo. Metto il disco nel lettore della macchina, al settimo cielo, parte l'intro del primo brano, Chinese Democracy, e mi ritengo vagamente soddisfatto: il sound fa schifo, il rock'n'roll è andato, ma almeno spinge.
Dal secondo brano in poi è stato tutto a scendere: una ballad dietro l'altra, un'accozzaglia di suoni industriali (If The World), ritornelli degni delle migliori Spice Girls (emm, no, non è un complimento) e chitarre orrende (piccolo appunto: Robin Finck, chitarrista, ha suonato coi Nine Inch Nails quindi, con tutto il rispetto, che c'entra coi Guns?).
Sono rimasto profondamente deluso. Quindici anni pe sta cacata?!? L'album, per farla breve, è questo: un continuo cercare la moderna Don't Cry, o la nuova November Rain.
Che tristezza. Quattordici brani noiosissimi e inconcludenti, che non acchiappano, che lasciano con l'amaro in bocca.
Che delusione.

Voto: 2/10
Tre brani decenti: Chinese Democracy, There Was A Time, Sorry. Il resto va bene per le ragazzine di oggi, quelle che vanno appresso a Linkin Park e al cosidetto pseudo metal...

martedì 18 novembre 2008

Parliamo dei Queen come se fossero un gruppo rock



Mi ha profondamente disgustato l'interesse mediatico e "ideale" (spiegherò cosa intendo più avanti) suscitato nei confronti della reunion dei Queen. Mi ha disgustato il fatto che sull'album uscito di recente (Cosmos Rocks) compaia sulla copertina l'ipocrita scritta Queen+Paul Rodgers, come se quest'ultimo facesse un favore agli altri a stare lì. Mi fa pena che i Queen continuino a chiamarsi Queen per un mero bisogno commerciale perchè dei Queen originali sono rimasti solo Brian May e Roger Taylor, così che l'abbandono del bassista Deacon non ha suscitato il minimo interesse.
Chi mi conosce sa del mio assolutamente non mascherato disprezzo verso la band inglese. Per chi non mi conosce ecco la spiegazione legata alla storia del gruppo, il tutto scritto considerando i Queen da un punto di vista rock (quindi senza compromessi). Molti si ritengono estimatori del gruppo solo perchè conoscono i brani più famosi, ma quanti hanno ascoltati TUTTI i dischi della band? Bene, io li ho ascoltati tutti (non me ne vanto, ci mancherebbe, me ne vergogno quasi...) ed ecco come stanno le cose. I Queen nascono come un gruppo rock blues come all'epoca (si parla del 73) ce n'erano a bizzeffe. In più degli altri i Queen avevano un gusto assolutamente kitch di comporre musica e uno stile anonimo e completamente privo di originalità. Abbracciano il credo glam che spopolava all'epoca e continuano come imitatori di David Bowie, inseguendone le sonorità e addirittura le scenografie. I primi due dischi sono rock senza tanti fronzoli, ascoltabili, ma che non lasciano il minimo segno. Il terzo disco, Sheer Heart Attack, anche se lo sanno in pochi, è il migliore della loro discografia perchè è onesto, fatto con la loro testa (non con quella di Bowie o Marc Bolan o Alice Cooper e così via). Un tripudio di pezzi hard rock e altri più soft ma comunque accattivanti. Tra i solchi tuttavia si intravedeva già la linea melodica, carnevalesca e mielosa che lì porterà (dal punto di vista rock che mi interessa) alla rovina. Chi è il fautore di cotanta melassa (quella di Killer Queen o di Lily of the Valley)? Freddie Mercury. Qui apro una parentesi. Freddie Mercury, e lo dico sapendo che il mondo è pieno di estimatori che lo adorano ad occhi chiusi, è il cantante più sopravvalutato dell'intero panorama musicale. Io lo disprezzo perchè ha portato un gruppo come i Queen verso il pop da classifica quando potevano tranquillamente diventare un grande gruppo rock alla stregua di Zeppelin e Purple. Mercury era completamente privo di tecnica vocale e lo si può capire quando, più avanti, comincerà a fare quegli urli che lo hanno reso leggenda, non riuscendo a modulare bene la sua potenza. Da Sheer Heart Attack in poi le sue composizione saranno assolutamente riconoscibili all'interno del gruppo tanto che ormai Mercury era sinonimo di pop e May di rock.
E' con queste intenzioni che viene registrato l'album che, in linea con le caratteristiche del cantante, è il più sopravvalutato della storia del rock, A Night At The Opera. In realtà tutti dovrebbero ammettere che A Night At The Opera lo si possiede per un solo motivo: Bohemian Rhapsody. Il brano fa breccia nei cuori dei più avvezzi alla melodia, col pop più diretto, perchè l'esperto di musica sa benissimo che Bohemian Rhapsody è un'accozzaglia di suoni e voci (un pessimo lavoro di produzione) assolutamente mal riuscito (lo sanno tutti che Mercury ha aggiunto il famoso pezzo coi Galilelo, Figaro solo per allungare il brano). Il singolo è uno dei più venduti nel regno unito (attenzione, nel regno unito, non nel mondo) mentre l'album, di per sè, non è mai arrivato nemmeno tra le prime centro posizioni delle classifiche. Il resto del disco è una miscela di generi dentro canzoni che stufano dopo pochi secondi, dove è chiaro e limpido l'imporsi della figura di Freddie Mercury.
Grazie al suo imporsi i Queen si sono venduti producendo una serie infinita di album uno più brutto dell'altro e singoli dal sicuro impatto commerciale. Allora diciamo una cosa e diciamola per bene: i Queen non sono un gruppo rock, SONO UN GRUPPO DA CLASSIFICA POP. Prendiamo l'album pop per eccellenza del quartetto: The Works. Il disco contiene le più grandi offese musicali del secolo, perle di schifo come Radio Ga-Ga, I Want To Break Free, Hammer To Fall, It's A Hard Life.
Chiariamo un'altra cosa. Io non voglio denigrare i Queen, voglio solo chiarire i loro intenti: intenti commerciali. Tutti i gruppi hanno intenti commerciali, direte giustamente, tuttavia i veramente grandi ci riescono senza tradire le proprie intenzioni (gli Zeppelin hanno fatto brani pop? I Purple? I Sabbath? Non mi pare...). Il mio disprezzo va a Freddie Mercury, ritenuto ingiustamente un grande, bravo solo nel costringere un gruppo alle sue volontà. Ci si carica di compassione quando si parla di lui e della sua morte ma io voglio solo parlare di musica, non di persone. E se parliamo di musica, si sa, i Queen dividono. Non ho mai visto la loro toppa sul giubbetto di un rocker; non ho mai visto un chitarrista sbavare dietro un pezzo di May; non ho mai visto un gruppo fare una cover dei loro brani (dico gruppi underground, non i Metallica che rileggono Stone Cold Crazy, brano tratto da Sheer Heart Attack tra l'altro). I Queen non vengono considerati nel panorama rock, per fortuna, ma solo per i loro inni lacrimosi e privi di valore musicale. Chiunque dell'ambiente (parlo di musicisti veri quindi), non vi dirà mai che i brani dei Queen posseggono architture armoniche di rilevanza o passaggi degni di studio.
Così, quando Paul Rodgers è subentrato nel progetto ("perchè non ha sostituito Freddie, si è solo aggiunto"... ma come cazzo si fa dico io...) mi sono sentito quasi offeso.
Ecco la ragione del mio astio, il motivo base: molti non conoscono Paul Rodgers, non conoscono il suo passato nei Free, nei Bad Company e nei Firm di Page. Non sanno che non sono May e Taylor a guardae dall'alto in basso Rodgers, ma l'esatto contrario! Rodgers è un vero professionista, una specie di mito intoccabile del rock'n'roll anni 70. Quando sento la gente dire che Rodgers non è degno di sostituire Mercury, mi chiedo, ma avranno sentito la sua voce? Sanno chi è Paul Rodgers? Ovviamente no. Mi dicono che non arriva agli acuti di Mercury ma lo hanno mai ascoltato nei Bad Company? Paul Rodgers fa letteralmente venire la pelle d'oca!
Ma non mi si venga a dire che i Queen sono un grande gruppo, evitatelo, se non volete subirvi questo spiacevole sermone dal vivo.



Ps: volete sentire del rock vero? Ascoltate Fire & Water dei Free di Paul Rodgers, così poi ne riparliamo... altro che Freddie Mercury.

mercoledì 1 ottobre 2008

There Will Be Blood (Il Petroliere)






di Paul Thomas Anderson, con Daniel Day Lewis, Paul Dano






Ci sono solo quattro film che mi hanno veramente sconvolto l'esistenza negli ultimi anni: uno è Donnie Darko, quel gioiello di Richard Kelly; Into The Wild del grandissimo Sean Penn (di cui ho già lungamente parlato in questo stesso blog); Non è un paese per vecchi di quei vecchi geniacci dei fratelli Coen; l'ultimo è questo There Will Be Blood, un capolavoro immane diretto in maniera fantastica da Paul Thomas Anderson (Magnolia, Sydney, Boogie Nights).


Siccome su questo film si è già detto di tutto, inclusi imbarazzanti (imbarazzanti per chi li ha scritti) e forzati (forzati perchè non servono, il film vive benissimo di vita propria) paragoni con John Ford, John Huston, Orson Welles e Kubrick (forse quest'ultimo ci potrebbe azzeccare qualcosa...), non tenterò di parlarne in maniera fintamente poetica, lasciando l'interpretazione metaforico-simbolistica a critici esaltati più di me, e anzi andando al cuore del discorso.


Il titolo del film, ma guarda un pò, è molto più interessante in lingua originale (There Will Be Blood). Il Petroliere è giusto, come titolo, di questo parla in effetti, ma tralascia, e questo è un vero peccato, quel senso di epicità e grottesca grandezza che scaturisce un titolo così ridondante come There Will Be Blood. La cosa l'hanno capita anche gli addetti ai lavori, tanto che è stato commercializzato come Il Petroliere e poi ad inizio pellicola compare il titolo originale scritto in gotico (ancora più grottesco) e anche in chiusura, dopo che uno splendido finale (forse il migliore mai visto in un film) lascia a bocca aperta lo spettatore che in quell'esatto momento capisce il significato esatto del titolo (originale) ed esce con un senso di maestosità dal cinema (o dal salotto, fate voi)

Non dirò niente su Daniel Day Lewis, se non che è un grandissimo attore, forse l'unico che ha meritato l'Oscar negli ultimi anni per questa incredibile interpretazione. Non dirò altro sulla regia perchè lascio allo spettatore i dovuti commenti; nemmeno sul grande senso del film dirò altro, perchè è già detto tutto nel titolo.

Posso dire solo che la cosa migliore l'ha detta il regista stesso, definendo il suo film un horror mascherato da western. Horror non perchè ci siano scene di tagliuzzamenti o spargimenti di sangue fini a se stessi, ma perchè capirete dove può arrivare un uomo spinto all'inseguimento più sfrenato dei suoi valori compromessi dalla società e dalla, chiamiamola così, misantropia. E cosa fa più paura di un uomo privo di remore?

Così quando Daniel Plainview (il protagonista) dirà, nell'ultima scena, ho finito, per poi comparire la scritta There Will Be Blood vi sentirete, in ordine: meravigliati, estasiati, sollevati e subito dopo coscienti di aver visto il più grande capolavoro cinematografico degli ultimi anni.


Voto: 10/10
Perfetto, nella più capillare accezione che il termine esprime.

mercoledì 10 settembre 2008

Motörhead




"Motörizer" 2008



I Motörhead non esistono solo per fare dischi tutti uguali dal 1977, ma anche per ricordare a tutti noi che c'è un fuoco e questo fuoco si chiama rock'n'roll. Lemmy & soci arrivano al 2008 dopo un tour lungo l'Eternità che non ha toccato solo il polo nord (ma ci stanno lavorando) e la mia città, e ci arrivano con il solito speed metal, col solito rock'n'roll macchiato di blues, sporco e ruvido, con la voce distrutta e affilata come un rasoio arruginito, con la chitarra esageratamente potente, con la batteria che sembra un carrarmato veloce come una Ferrari.

I Motörhead sono arrivati a Motörizer e fanno sempre drizzare i peli delle gambe come una tirata di whiskey, sono sempre altezzosi, si danno le arie e suonano da un piedistallo che chiameremo Olimpo del Rock, macchiato dagli scatarri giallo nicotina di Lemmy. Così quando parte Runaround Man, non è niente di nuovo, ma è come tornare a casa, diavolo, un sospiro di sollievo sapere che i Motörhead fanno le stesse cose da trent'anni. A metà disco, dopo il pesantissimo e lisergico hard rock di One Shot Life, c'è Buried Alive, sicuramente il brano più bello dell'album, che ti costringe ad alzare il volume dello stereo fino a farti sanguinare le orecchie. C'è pure l'immancabile rock'n'roll di English Rose e la sensazione è quella di essere rimasti negli 70, tutto birra e fica. La lentezza di Heroes riporta ai bei tempi di Bastards e l'heavy metal di The Thousand Names Of God chiude l'album con la sicurezza di avere a che fare con un gruppo che fa sempre la stesse cose, ma le fa meglio degli altri.


Voto: 10/10
Come tutti gli album dei Motörhead, tutti perfetti, anche questo. Meno male.

lunedì 8 settembre 2008

Metallica




"Death Magnetic" 2008



Ok, non ho resistito. Non sono riuscito ad aspettare l'uscita ufficiale dell'album, il 12 settembre, e per vie traverse (il mulo ovviamente), ho reperito l'attesissimo nuovo album dei Metallica. Death Magnetic, prodotto da Rick Rubin che personalmente non stimo e mai avrei sospettato fosse andato a finire a lavorare coi Metallica. Contenti loro...


Eravamo rimasti coi Metallica al lontano 2003, all'uscita del controverso St. Anger, album bistrattato e demolito dalla critica. Con orgoglio posso dire che io quell'album lo adoro (tutt'ora) e lo considero un piccolo capolavoro di Thrash Low-Fi Metal in se. Bisogna dire che la carriera dei Metallica, a partire dal Black Album del 1991, ha subito una marea di critiche: chi li ha accusati di essersi venduti, chi di essere finiti ecc. Io credo che la maggior parte delle persone non ha capito un cazzo di questo gruppo. Mi spiego. Col Black Album hanno cominciato un interessante viaggio all'interno di diversi generi, a partire dal metal nel senso più stretto (il Black Album appunto), l'hard rock (Load e Reload che, per quanto ne dicano, sono ottimi album) e l'hard core, se così vogliamo definirlo, di St. Anger. Finito con questa sorta di viaggio musicale, i nostri nel 2008, dopo tour nostalgici in cui hanno rispolverato il masterpiece per eccellenza Master Of Puppets, si rendono conto di essere ancora legati ad un certo Thrash californiano ed ecco che nasce un nuovo album.


Alla domanda più diretta, quella che tutti si stanno facendo e sulla quale gravita tutto l'interesse per il nuovo album e cioè ma Death Magnetic è thrash?, la risposta è: SI. Death Magnetic è thrash. Orde di rompicoglioni cominceranno a speculare su tale risposta (che non ho dato solo io ovviamente) e a tergiversare su quanto sia thrash questo o qualche altro brano. Molti si aspettavano sonorità alla Master Of Puppets e per lo più sono stati accontentati anche se il sound del disco ricorda più le tracce di ...And Justice For All. Credo che questo album, idealmente, possa essere il degno successore del capolavoro dell'88. Non è così tecnico ma di certo in quanto a pesantezza nuda e cruda siamo là. Il mio unico appunto va al sound in generale (e questa è colpa di Rubin sicuramente). Ulrich ha rimesso la retina al rullante e di questo siamo tutti contenti, tuttavia le chitarre hanno perso l'aggressività che in St. Anger scorreva fiumi. Intendiamoci, Hammett e Hetfield suonano Heavy Metal, sia ben chiaro, ma certi brani, che effettivamente sono di una potenza devastante, avrebbero avuto bisogno di uno spessore in più per quanto riguarda le asce. Comunque sia Hammett in questo disco c'è: tornano gli assoli, ovviamente, e questo è già tanto. Anzi quando sento le orchestrazioni chitarristiche tanto care al gruppo mi chiedo come abbiano fatto a rinunciarvi in St. Anger... vabbè ormai è storia vecchia. Passiamo all'album.


Death Magnetic (titolo sicuramente discutibile, preso da un verso dell'ultimo brano My Apocalipse) si apre con la tiratissima That Was Just Your Life. Introduzione arpeggiata come nei loro migliori album e poi il gruppo comincia a sbattersi. La prima volta che l'ho ascoltata non mi aspettavo assolutamente l'incedere pericolosamente thrash del brano. Si comincia bene, devo dire. The End Of The Line non abbassa il tiro, anzi, riporta la memoria al 1988 e i paragoni con ...And Justice For All cominciano a farsi sentire. L'unico appunto è che il riff principale non è tra i migliori del gruppo, anche se si riprende nei passaggi e nei cambi di tempo. Broken, Beat & Scarred è sicuramente un brano rimasto dalle sessions di St. Anger. Aggressività allo stato puro, batteria bella marcata, ogni tanto si sente anche Rob Trujillo (lo sappiamo tutti che il basso dopo Cliff Burton, nei Metallica, non è che abbia mai avuto un grande ruolo...) e chitarre affilatissime. Sicuramente uno dei brani migliori dell'album. Segue il primo singolo The Day That Never Comes. Quando sentii il brano per la prima volta (un mese fa circa ormai), mi venne paura. L'intro che ricorda un pò Fade To Black per quanto riguarda la struttura (arpeggio, solo e arpeggio incrociato) mi aveva spaventato. Pensavo fosse una ballatona melensa e strappalacrime (che ogni tanto ci sta, ma non come primo singolo) e invece mi ritrovo un brano di rara cattiveria, dall'incedere maestoso e decisamente interessante. Verso il quarto minuto le chitarre triplicano e comincia il riff paccuto, poi il cambio di tempo (raddoppia), assolo di Hammett da manuale, velocità e tanta cattiveria. All Nightmare Long è uno dei miei brani preferiti dell'album. Una delle intro migliori che abbia mai sentito dai Metallica e un cambio di tempo inaspettato. Gli intrecci di chitarre sul ritornello sono veramente da brivido e in tutto il brano il quartetto non smette un attimo di picchiare sul proprio strumento. Segue Cyanide, secondo singolo estratto (vanno di fretta?), dove si sente il basso per la prima volta, nell'introduzione. Il brano in se non mi ha fatto impazzire. Come sonorità, almeno all'inizio, ricorda molto di più i brani di Load e fratello, anche se pezzi di doppia cassa riportano il tutto sullo standard del disco. Brano non indimenticabile comunque. La track seguente mi lascia interdetto: The Unforgiven III! III? Quando ho visto il titolo ho pensato che fosse una grandissima cazzata e continuo a pensarlo. Potevano metterci un altro titolo perchè il brano è veramente fantastico e non c'entra un beneamato con i due vecchi brani. A partire dall'introduzione che è un evidente citazione della musica di Ennio Morricone (che i Metallica, com'è risaputo, adorano). C'è qualche arpeggio quà e là, il cantato melanconico (unico punto in comune con le altre Unforgiven) e bei riff di chitarra. Il brano in sé non è la ballatona orchestrale (com'erano le altre due), ma piuttosto un hard rock lento dal piglio melodico che comunque non stona troppo in questo disco. Da notare il solo finale, veramente fantastico, così come l'accompagnamento strumentale. Ripeto, il titolo è una stronzata, ma il pezzo è interessante. The Judas Kiss è il brano che più di tutti sembra essere uscito da ...And Justice For All. Tecnicamente ineccepibile, continui cambi di pattern, lungo inizio strumentale e perfino il sound in generale sembra essere ispirato dal vecchio album. E' il pezzo più arduo dell'album, nel senso che è thrash vero e proprio, niente compromessi: velocità e pesantezza. Bel lavoro. Una volta i Metallica ci avevano abituati ad un brano strumentale verso il finale dell'album. Bene, dopo quattro album di assenza ecco che torna la suite strumentale mastodontica. Suicide & Redemption è senza dubbio il brano migliore dell'album, bellissimo, epico, non sta ai livelli di Orion ma c'è pure l'arpeggio centrale con conseguente guitar solo. Fantastico. La chiusura è impressionante, un brano veramente indimenticabile. A chiudere l'album c'è My Apocalipse. Come Dyers Eve in precedenza anche questo brano di chiusura è bello serrato. Come per gli altri brani, la parola d'ordine è velocità e violenza.


Voto: 8/10
Devo dire che mi ritengo soddisfatto. I Metallica hanno mantenuto le promesse e sono tornati al tanto chiacchierato thrash di cui, in effetti, loro sono fondatori e maestri. Manca in realtà il brano capolavoro, la Master Of Puppets della situazione diciamo, o la And Justice For All. In compenso tutti i brani sono molto belli (e lunghi, stiamo sugli otto minuti di media!). Quello che si dice è vero: sono tornati ai vecchi tempi e mi fa molto piacere. Otto perchè a volte le chitarre (paradossalmente) non sono aggressive quanto meriterebbero i brani e il fatto che hanno scelto quel cazzone di Rubin per la produzione mi ha deluso moltissimo. Per essere veramente un capolavoro (perchè ci manca veramente poco) le chitarre dovevano essere come quelle di St. Anger. Altra pecca la copertina: che cazzo dico io, sembra Nightmare Before Christmas, e che cavolo! Va bene che ci hanno rimesso il nome del gruppo con la scritta storica ma la bara fa proprio schifo! Sarà che mi fa pensare a Tim Burton... a parte questo, bel lavoro, veramente.

sabato 28 giugno 2008

Uriah Heep



"Wake The Sleeper" 2008


Disco nuovo per gli Uriah Heep, a dieci anni di distanza dal notevole Sonic Origami, che ne ripercorre le sonorità accentuando le asperità e la complessità che caraterizza la band dall'inizio della loro non proprio esaltantante carriera. Perchè, lo dico con tutta tranquillità, gli Uriah Heep, una delle mie band preferite in assoluto (vengono poco dopo i Sabbath e i Purple) hanno fatto dischi fantastici per... tre anni, dal 1970 al '73, anno del famoso Live. Dopo di che si sono ripetuti più degli AC/DC, si sono sbavati addosso (Sweet Freedom, 1973), hanno copiato i Blue Oyster Cult (Return To Fantasy, 1975), cadendo in un hard rock rozzo e dozzinale (Fallen Angel, 1978).


Fottendosene altamente di tutto ciò, l'unico membro originale, il pacioso Mick Box, chitarrista, ha portato avanti il suo credo dickensiano (Uriah Heep è un personaggio di David Copperfield) sfornando periodicamente dischi uno più uguale dell'altro (Raging Silence, 1989 e Different World, 1991 sono uguali? Si), con lo stesso sound degli anni 70: Mick Box è rimasto al 1972, a Demons & Wizards e ad ogni disco prova a bissare il successo di quell'anno, con scarsi risultati purtroppo. Come dice la critica gli Uriah Heep sono un gruppo veramente inutile oggigiorno, continuano a sfornare dischi che di interessante non hanno nemmeno più le copertine (Rolling Stone, luglio 2008).


Fortunatamente ci siamo noi fan che ce ne sbattiamo con moderazione di tutte ste cazzate e ci godiamo l'ennesimo disco degli Uriah Heep, che sarà pure uguale al precedente ma almeno è meglio delle puttanate che escono con nomi tipo Dream Theater e schifezze protoprog varie.


Permettetemi di dire che Wake The Sleeper è un grand'album. A parlare non è il fan ciecato degli Heep, bensì un critico obiettivo che sa cos'è l'hard rock. Poteva andare peggio, molto peggio. Invece quest'album possiede potenza/possenza e sgorga energia da tutti i pori. Basta ascoltare la title-track che apre il disco, un ottimo heavy metal che ricalca perfettamente lo stile del gruppo, con la chitarra wah di Box assoluta protagonista. Gli altri brani riprendono le sonorità settantine in realtà mai abbandonate: l'ottima Overload non si discute, sembra essere uscita dal periodo d'oro della band. Bernie Shaw alla voce compie un ottimo lavoro. Non imita David Byron (almeno non troppo) ma continua perfettamente il lavoro melodico cominciato da John Lawton negli anni 70, ovvero una voce potente e melodiosa, che non stanca e soprattutto non annoia. Ai più affezionati byroniani forse mancheranno gli urletti strizzapalle ma devo dire che nel sound di questo disco avrebbero altamente cozzato. In Light Of A Thousand Stars torna protagonista l'hammond che ai bei tempi fu di Ken Hensley e ora è suonato in maniera abbastanza anonima da Phil Lanzon. Lavora di accompagnamento, tappeti sonori non proprio eccelsi, senza prendere mai posizione. Ma d'altronde il suono della band da almeno vent'anni a questa parte è completamente in mano a Mick Box, e si sente. Ghost Of The Ocean è uno dei migliori brani del disco, un bel rock'n'roll suonato in maniera veramente divina, con le complessità vocali cui gli Heep ci hanno abituato e un bel crescendo chitarristico verso il finale che sfocia in un ritmo sincopato tagliato con la motosega e un finale a doppia cassa dove risalta la chitarra wha di Box, gran bel brano. Angels Walk With You è la classica americanata (gli Heep sono inglesi). Una melodia che potrebbe essere cantata dal peggiore Joe Lynn Turner (quello dei disch solisti, Rescue You...) che però improvvisamente cambia prendendo un incedere progressive con una parte strumentale, dove finalmente vien fuori l'hammond, veramente eccelsa! Il disco si chiude con Shadow, hard rock dal riff granitico e War Child, carnevalata hard, forse il brano più debole dell'intera produzione.


Voto: 8/10
Mi fanno incazzare i critici che detraggono a priori gli Heep (e tutti i vecchi gruppi) solo perchè fanno ancora dischi. Wake The Sleeper è un disco di un'onestà disarmante: è HARD ROCK suonato coi controcoglioni, senza tanti arzigogoli. Forse non sarà la fiera dell'originalità ma i gruppi moderni dovrebbero solo che incanarsi dinanzi a tanta magnificenza e imparare, con un pò di modestia, a suonare come i maestri.


ps: la copertina fa schifo... si vede che non le disegna più Roger Dean...

venerdì 13 giugno 2008

Motorpsycho



"Little Lucid Moments" 2008


Inserisco dubbioso il cd nello stereo. Tutti mi parlano bene di questo gruppo norvegese. Saranno così bravi? Per quanto mi riguarda gli unici gruppi moderni per i quali mi sono veramente sprecato sono stati i Mars Volta e i Mammatus. I Motorpsycho vivono nel circuito underground dal 1990 e io ne ho sentito parlare solo con l'uscita dell'ultimo album. Secondo molti il loro capolavoro. Non conoscendo gli altri dischi della loro sconfinata discografia mi limiterò a parlare brevente di questo album.


Beh, la prima reazione è stata: CAZZO! Possibile che mi sono sfuggiti per tutto questo tempo?!? Come mai non mi sono mai accorto di loro?

Questo disco è veramente impressionante: quattro brani (come si faceva una volta, la title-track dura 22 minuti) di musica veramente grandiosa. Parlare di un genere è abbastanza complicato: con i Mars Volta condividono lo spirito sperimentale, ma la loro musica è molto più semplice e diretta. Diciamo che di base è hard rock. Hard rock che poi si allarga, raggiunge la psichedelia (nella title-track), il progressive, il noise (She Left On The Sun Ship), l'acid rock e, perchè no, anche un art rock alla Van Der Graaf Generator, attraverso virate mai scontate e accurate. Niente virtuosismi eccessivi (i Mammatus sono molto più bravi a suonare) anche se il livello medio non è per niente male.


Voto: 9/10
La recensione non è accurata ma ci tenevo a riportare le impressioni suscitate dal disco mentre lo ascoltavo la prima volta. E' veramente un gran bell'album, raro di questi tempi. 9 perchè alcuni echi post/rock anni 90 non mi sono piaciuti, altrimenti era perfetto.

giovedì 12 giugno 2008

Hendrix is God and in Clapton we trust



































Chiunque tenti un approccio al mondo della chitarra si trova inevitabilmente di fronte due grossi nomi con i quali fare i conti: Jimi Hendrix e Eric Clapton. Anche chiunque approdi nel mondo del rock, anche solo per sbaglio, sa che le colonne portanti del genere sono un paio di canzoni come Voodoo Chile (Slight Return) e Layla.

Il primo, Hendrix, è americano, di Seattle per la precisione, anche se il vero battesimo avviene proprio in Inghilterra in un periodo (il 1966) in cui, stranamente, il blues americano, quello vero diciamo, viene completamente "rubato" e fatto proprio dagli inglesi che, indubbiamente, lo suonavano meglio (basta guardare i Rolling Stones). Fulgido esempio di questa tendenza è un album storico: Beano, il primo disco dei Blues Breakers di John Mayall con un allora semi sconosciuto Eric Clapton alle chitarre. Hendrix nel 67, supportato da Chas Chandler degli Animals, viene introdotto nell'ambiente blues inglese e il resto è storia.

a allora il luogo comune maggiore è il reputare i due grandissimi chitarristi come antagonisti l'uno dell'altro. Niente di più sbagliato. Hendrix era un grande estimatore di Clapton, andava letteralmente in delirio per i Cream tanto che spesso, nei suoi concerti con gli Experience, riproponeva Sunshine Of Your Love. Proprio durante la registrazione di Layla and Other Assorted Love Song dei Derek and the Dominos, Hendrix morì di overdose, a quel punto Clapton decide di includere una sua personale reinterpretazione di Little Wing, canzone che nel contesto assume un significato ancora più profondo. Lo stesso Clapton compare nel film Jimi Hendrix, di Peter Colbert, in una commovente intervista in cui parla della profonda amicizia e del rispetto che legava i due chitarristi.


Clapton era il dio incontrastato del blues inglese. Chitarrista venerato e irraggiungibile. Scrive la storia non solo con John Mayall ma anche e soprattutto con i Cream, insieme a Jack Bruce e Ginger Baker. Da allora il gruppo è considerato il must assoluto del rock blues di quel periodo. Poi arriva dall'altra parte del mondo un trio di fuori classe che poco ha che invidiare ai colleghi inglesi: gli Experience. Se Ginger Baker era il "batterista" per eccellenza (numerosissime esperienze in ambito jazz e blues prima dei Cream), Mitch Mitchell degli Experience era un signor nessuno con tanta voglia di fare casino. Ora, quando il gruppo di Hendrix arrivò in Inghilterra probabilmente la gente dovette ricredersi: come mai un gruppo di sconosciuti (gli Experience) suona meglio degli iperfamosi Cream?

Gli Experience erano molto più selvaggi dei Cream. Hendrix teneva gli amplificatori talmente alti che la gente usciva dai concerti con le orecchie che fischiavano. In oltre aveva una presenza scenica che tutti i Cream messi insieme non riuscivano ad eguagliare. Maltrattava la chitarra come nessuno ed era una novità assoluta: quella Stratocaster subiva più violenze di una donna stuprata. L'Inghilterra impazzì per quel trio. A conquistare il mondo ci hanno messo meno di un mese.


Nonostante questo Clapton ammise più di una volta di avere una tecnica molto più semplice di Hendrix. La stima che provava per lui era impressionante ed è curioso sentire poi Hendrix parlare di Clapton come un messia, un chitarrista grandioso, molto migliore di lui sotto tutti i punti di vista. Hendrix possedeva una modestia rara per un chitarrista che ha cambiato la storia. Clapton era più realista ma non ha mai denigrato colui che lo spodestò dal trono, se così si può dire.

Nacquero allora due scuole: il blues di Clapton e il rock di Hendrix. Il primo lasciò completamente perdere il rock esplorato nei Cream per registrare dischi sempre più belli, in bilico tra blues più viscerale e rock'n'roll più vecchio; il secondo visse i tre anni (1967-1970) più intensi che un chitarrista potrebbe mai desiderare. Registrò tre dischi storici (Are You Experienced?, Axis: Bold as Love, Electric Ladyland) e un numero enorme di live. Poi si spense proprio mentre sembrava ad un passo dal compiere un altro miracolo (il primo era Electric Ladyland). Il miracolo si chiamava Cry Of Love, uscito postumo e, purtroppo, incompleto.
Io continuo a ringraziare questi due grandi chitarristi che, anche se uno è morto, continuano a darmi emozioni che pochi altri riescono a darmi.

martedì 6 maggio 2008

INLAND EMPIRE




di David Lynch, con Laura Dern, Jeremy Irons, Harry Dean Stanton, Justin Theroux






Per chi non lo conoscesse, posso dire due parole su David Lynch: un genio. Un genio che è stato in grado di far diventare ogni suo film un cult, quale altro regista ci è riuscito? Qualche titolo: Dune, assoluto capolavoro della fantascienza; The Elephant Man, tra i più bei film di sempre; Velluto Blu, il film che ha riportato il cinema americano ad una qualità fino ad allora solo auspicabile; Eraserhead, suo prima opera completa, praticamente uno dei più grandi cult di sempre. Questi sono solo alcuni titoli, se non vi bastano posso aggiungere che Lynch è il geniale autore/creatore di una serie tv come Twin Peaks. Non so se mi spiego.

Il suo cinema si contraddistingue per la continua perdita della realtà (o realtà completamente rinnovata come in Dune o Eraserhead), per il piglio psicologico dei suoi personaggi (dei veri e propri eroi metropolitani), per il continuo bombardemento allo spettatore di visioni oniriche, sogni, distorsioni, mostri, incarnazioni del bene e del male, meandri oscuri dove chi guarda è costretto a lasciarsi trasportare dalla bellezza delle immagini, dal susseguirsi di scene apparentemente inspiegabili. L'inspiegabile è proprio la chiave di tutti i suoi film.

Lynch è regista assai contestato per la poca chiarezza dei suoi film. Anche nelle sue rare apparizioni in pubblico non fa che ripetere che non bisogna darsi una spiegazione dei suoi film. Bisogna solo viverli. Lynch cerca di dar vita ai diversi moti dell'essere, all'essenza delle cose, mette per immagini le paure a tutti comuni e crea intorno ad esse involucri angoscianti di sequenze senza significato, lunghi silenzi con la sola inquadratura degli occhi del protagonista (Kyle MacLachlan in Velluto Blu ne è un grande esempio) e distrugge il concetto di piano dimensionale, creandone di volta in volta di nuovi, massacrando la trama, riducendo all'osso la stessa idea di narrazione.

Dopo aver esplorato (sempre a modo suo) i sentieri della storia d'amore con un particolarissimo road movie come Cuori Selvaggi (1990) (il miglior film di Nicolas Cage, senza dubbio); dato al mondo un capolavoro immane come Strade Perdute (1997) e regalato un racconto semplice e commovente come Una Storia Vera (1999), da vita nel 2001 ad un'opera che lo consacra definitivamente tra i mostri sacri del cinema: Mulholland Drive. Famoso per le scene erotiche lesbo tra le protagoniste (Naomi Watts ed un'eccitantissima Laura Elena Harring), sbalordì il pubblico per la narrazione assai controversa di un thriller metafisico di impareggiabile levatura.

Non soddisfatto dei capolavori fino ad allora partoriti, da vita ad un altro ambizioso progetto: INLAND EMPIRE (scritto rigorosamente maiuscolo su tutte le pubblicità), l'impero della mente. Lynch ci mette tre anni a girare questo film (in realtà pochi mesi di riprese) e lo nomina direttamente come la sua più grande sperimentazione. E' un film immenso, senza dubbio, impossibile da raccontare ma assolutamente necessario per chi ama questo regista.

Lynch gira per la prima volta in digitale. L'incontro tra il digitale e Lynch lascia esterefatti: ci si aspeterebbe una qualità d'immagini superba e invece ecco lì che ci troviamo tre ore di film girati come se a tenere la macchina fosse il babbo nell'uscita domenicale: il tratto è nervoso, ricco di movimenti, con zoom repentini e cambi di sequenza altrettanto veloci. Lynch usa il digitale per giocare con questi effetti, rimanendo a lungo sui primi piani dei personaggi e usando la fedeltà del nuovo formato per raccontare la sua storia esattamente come l'ha concepita: secondo per secondo. Può lasciare stupiti, ma INLAND EMPIRE è stato girato interamente senza sceneggiatura. Lynch sostenne che l'intera opera era già stata girata nella sua testa, pertanto bastava che gli attori seguissero esattamente ciò che lui, con dovizia di particolari, suggeriva.

Il risultato è l'odissea personale di Nikki (una magistrale Laura Dern), che ricevuta la parte per un oscuro remake di un film, comincia la sua vita di nevrosi e ricerca dell'amore. Si potrebbe definire INLAND EMPIRE come una storia d'amore, per certi versi, e un fitto dramma psicologico per altri. Se l'inizio sembra linere (ma mai troppo: comincia con una puttana polacca che guarda una sitcom fatta da conigli!), mano a mano il tessuto narrativo perde il suo stesso significato: Laura Dern impersona allora tutte le sfaccettature di Nikki: come attrice, come puttana, come assissina e, infine, come se stessa. Il film è una visione onirica di una donna in pericolo (come l'ha definita lo stesso Lynch) che cerca di salvarsi da se stessa, dai suoi demoni, da suo marito, da tutti ciò che il regista, con bravura sopraffina, ci mostra durante il film. Difficile dire altro sulla trama perchè di fatto, la trama, non c'è. Le immagini si susseguono una dietro l'altra, senza apparente logica (ma la logica c'è, c'è...), con scene autoconclusive che distraggono lo spettatore dalla storia originale (la Nikki attrice) portandolo in un labirinto senza uscita, buio, fatto dagli incubi che Nikki crea.

Voto: 10/10

Tutti i film di Lynch non scendono al di sotto del dieci. Un regista (perchè tutte le sue opere seguono lo stesso filone) che si ama o si odia. INLAND EMPIRE sbalordisce per la cruda realtà sognante che Lynch con bravura ci regala: proviamo gli stessi incubi di Nikki, le stesse paure, le stesse angosce. In questo Lynch è insuperabile.

martedì 29 aprile 2008

Deep Purple



"The Battle Rages On...", 1993


Questa più che una recensione vuole essere una considerazione su di un disco personalmente epocale che ha sancito la fine di un periodo per un gruppo importante ed influente sul mondo del rock come i Deep Purple. Fine di un periodo perchè il chitarrista storico, un certo Ritchie Blackmore, lasciò il gruppo a metà del tour promozionale del disco, costringendo i Profondo Porpora ad assumere un chitarrista mediocre come Joe Satriani per suonare nelle date giapponesi.


E questo era solo l'epilogo. In principio il disco doveva essere cantato da Joe Lynn Turner, voce dei Rainbow più hard del passato nonchè vocalist del modesto "Slaves & Masters" dei Deep Purple del 1990. Il disco era stato apprezzato dai fan di vecchia data dei Purple, ma distrutto dalla critica di settore che lo aveva etichettato come successore mediocre del capolavoro "Bent Out Of Shape" (1983) dei Rainbow. Le sonorità infatti erano molto simili (hard rock elaborato con grande piglio melodico) e i componenti dei Purple (a parte Blackmore), insoddisfatti del risultato, premevano per una reunion della Mark II (quella storica di "Made In Japan" e di tutti gli altri capolavori porpora). Ciò significa riportare nei ranghi il grande Ian Gillan, impegnato in una deludente carriera solista, e quindi ricominciare con i litigi con l'intransigente Blackmore. Quest'ultimo era particolarmente contrario al suo rientro tuttavia, sentite le sessioni di prova con la voce di Gillan sui brani nuovi, si dovette convincere che il disco poteva diventare un capolavoro.


E così fu. L'intero album venne risuonato e adattato al timbro di Gillan. La produzione, curata per lo più da Roger Glover, era impeccabile; le sonorità erano più moderne e i brani sembravano essere uno più bello dell'altro. Blackmore compì un lavoro di chitarre impressionante, con riff e assoli di una bellezza incredibile (basta ascoltare la title track per farsene un'idea) il tutto coadiuvato da una tecnica (come sempre) impressionante da parte degli altri del gruppo (Ian Paice e Jon Lord sono sempre grandi). Brani tiratissimi come "Nasty Piece Of Work", "Talk About Love" e altri più bluesaggianti come "Ramshakle Man" e "Lick It Up" sono tra le prove più interessanti. Un brano come "Anya", dall'intro arabeggiante, nonostante riprendesse sonorità care al Blackmore dei Rainbow, possedeva un'anima porpora dall'indubbio fascino. Ogni altro brano del disco è un piccolo capolavoro a sè. Se si pensa che il disco venne registrato in un clima interno non proprio sereno (Blackmore e Gillan praticamente non si sopportavano) il risultato è ancora più impressionante. All'uscita del disco i fan entrarono praticamente in delirio, inneggiando al miracolo (il rientro di Gillan) e grazie al recupero di sonorità più classiche (continui rimandi ai suoni degli anni 70), l'album divenne automaticamente una pietra miliare del genere.

Verso la fine del tour del 1993 Blackmore, stufo dei continui litigi, lasciò il gruppo in balia di se stesso (ora non è perchè io lo adoro alla follia, ma il motore del gruppo era lui...) e riformò (per un disco) i Rainbow. I Deep Purple finirono il tour con Satriani (concerti documentati da diversi bootleg... veramente un lavoro pessimo da parte del pelatissimo chitarrista...) e poi nel 1996 decisero di ridare un senso all'onorevole nome del gruppo arruolando Steve Morse alla chitarra (suggerito da Satriani, l'unica cosa utile che fece al gruppo...) e registrando un disco stupendo, "Purpendicular".


Voto: 10/10
Calcolando che nel 1993 girava un sacco di merda (il grunge, l'heavy metal), questo disco era un vero e proprio tocca sana per i rockettari di mestiere. Non c'è niente che non vada, tutto è perfetto, tutto il gruppo suona in maniera impeccabile, i brani sono bellissimi e diciamolo, Blackmore ha suonato veramente da dio.

martedì 22 aprile 2008

Eric Clapton


"One More Car, One More Rider", 2001

Nel 2001 Manolenta, dopo anni e anni di dischi sinceramente mediocri, pubblica il tanto atteso "Reptile" e finalmente si torna al blues di tanti anni fa. Il disco non è tra i suoi migliori (ormai i capolavori dei 70 sono belli che andati), tuttavia, tra i solchi dell'album, si poteva cogliere questa voglia di tornare a suoni semplici e diretti che nei dischi precedenti mancava.

E poi esce il live. Questo concerto è il sunto di tutta la carriera di Manolenta, dai periodi pop (troppi...), passando per il blues e arrivando al rock. Di Clapton si possono adorare i dischi in studio degli anni 70, superlativi secondo me, possono piacere quelli più soft degli anni dopo, ma se c'è una cosa che accomuna tutta la carriera del prode sono i live. Personalmente credo che tutti i suoi concerti, una volta messi su vinile (o cd) siano dei veri capolavori perchè dal vivo, Clapton, ci ha sempre saputo fare.

La cosa che mi ha sempre lasciato perplesso di questo doppio dal vivo è l'inizio: sei brani acustici in apertura. Non è che non condivido la scelta, anzi, sono brani bellissimi ("Tears In Heaven"!), tuttavia metterli tutti quanti in fila, all'inizio di un live (quando i primi brani dovrebbero essere quelli che danno la carica) piuttosto che sparsi, mi pare discutibile. Tra l'altro tra questi brani c'è anche "Bell Bottom Blues", uno dei pezzi più belli di Clapton (dai tempi di "Layla") che in veste elettrica avrebbe meritato sicuramente di più. Sul primo disco compare anche "River Of Tears" (brano estratto dal sottovalutato "Pilgrim") che è sicuramente l'esecuzione migliore, sia per quanto riguarda la parte strumentale che per quella interpretativa. Quasi dieci minuti di brano, una ballatona lenta e struggente, con assolo di chitarra del miglior Manolenta e una voce veramente da brivido. Ovviamente merito, oltre che del nostro, anche degli ottimi musicisti che lo accompagnano: il sempiterno Billy Preston agli Hammond, Nathan East al basso e un grandissimo e forsennatissimo Steve Gadd alla batteria. In particolare quest'ultimo mi ha colpito per l'esecuzione ultra-tecnica ma mai invadente, di una precisione chirurgica. Posso assicurare che su "Sunshine Of Your Love" non si rimpiange neanche Ginger Baker.
Il secondo disco presenta per lo più i classici del passato di Clapton. Riprende i Cream ("Badge", "Sunshine Of Your Love"), le colonne portanti del blues ("Hoochie Coochie Man", "Have You Ever Loved A Woman?") e i brani di "Slowhand" ("Cocaine", "Wonderful Tonight"). Da segnalare in particolare "Layla", qui in una delle sue migliori esecuzioni. Il tutto è chiuso da una stupenda interpretazione di "Over The Rainbow" che certamente non ha bisogno di presentazioni.

Voto: 8/10
Nel complesso un live veramente emozionante, non ai livelli di "Was Here" del '75 e nemmeno di "Just One Night" del '79, ma sicuramente tra i migliori della sua carriera. Se non fosse stato per l'inizio abbastanza flemmatico (i brani acustici), sarebbe stato addirittura migliore.

domenica 6 aprile 2008

Non Pensarci



di Gianni Zanasi, con Valerio Mastrandrea, Anita Caprioli, Giuseppe Battiston


Non sono un grande appassionato di cinema moderno all'italiana. Anzi, specifico che lo considero veramente poco e i film tratti dai capolavori di Moccia parlano benissimo da soli. Tuttavia, bisogna anche ricordare che la tradizione della commedia italiana è veramente prestigiosa e nomi come Alberto Sordi, Vittorio De Sica, Vittorio Gassman, Totò, Gigi Proietti fanno lettaralmente venire la pelle d'oca. Nonostante tali nomi, il cinema italiano è andato pressochè alla deriva, tanto che ormai i registi nostrani campano sui cinepanettoni natalizi (che tutto sono tranne cinema) e le commediole romantiche per ragazzine.


Poi fortunatamente, ogni tanto, escono questi film che passano lettaralmente inosservati al grande pubblico, attirando fan di questo e quell'attore o magari perchè il regista ci ispira fiducia. Non Pensarci fa parte di questa categoria: niente pubblicità in tv (se non qualche secondo di trailer su Coming Soon), poche interviste agli attori, nessuna considerazione da parte dei critici. Personalmente lo sono andato a vedere perchè ho sempre adorato Valerio Mastrandrea, protagonista della pellicola, considerandolo uno dei migliori attori/comici del nostro paese. Diciamo che sono andato a vederlo per farmi quattro risate dai. E poi mi sono ritrovato a vedere un film con i controfiocchi dove è vero che la trama era il solito polpettone all'italiana (tragedie, disoccupazione, tradimenti ecc) ma curata talmente tanto sull'aspetto ironico e realista che, alla fine, ci si poteva riconoscere nei personaggi e provare dei veri sentimenti verso di loro.


Il film nasce come un inno al fancazzismo più puro dove il protagonista Valerio Mastrandrea/Stefano Nardini, musicista sfigato, se ne torna dai genitori perchè la vita lo ha deluso più del dovuto e cerca il nido sicuro dal quale si era staccato e dove sicuramente avrebbe trovato riscatto. Si torna quindi alla famiglia, al paese d'origine, ai suoi luoghi comuni e soprattutto alla sua chiusura verso il mondo vero, il "di fuori" che Stefano cercava da giovane. Troverà qualcosa da fare, è vero, pure troppo, e si dipanano allora tutte le vicende tragicomiche del film, che tengono incollato lo spettatore sulla poltrona facendolo sì ridere (scene epiche all'acquario, dove Stefano si incazza letteralmente coi delfini!) ma soprattutto riflettere. Un film che parla di una famiglia retta dalle bugie che si raccontavano a vicenda per poter essere felici, esemplare, in questo contesto, la frase verso il finale del protagonista che, di fronte all'ennesima rivelazione da parte della madre, riassume tutto il senso del film "ma non era meglio quando ci dicevamo tutte quelle bugie? Non era meglio quando ci riempivamo di cazzate?"


Voto: 10/10
Non sono riuscito a trovargli difetti evidenti. Amaro in certi punti, assolutamente comico in altri. Ogni attore da il meglio di sè. Grandissima prova di come il cinema italiano di qualità esiste in queste pellicole di nicchia.

domenica 30 marzo 2008

Cathedral



"Stained Glass Stories", 1976


Continuiamo a parlare di progressive con un'altra perla persa nel tempo.


I Cathedral di questo splendido disco, "Stained Glass Stories" sono un pacato gruppo americano (non il gruppo doom metal di dubbia levatura artistica di Lee Dorrian), che ha vissuto lo spazio di un disco e poi è sparito, un po' per le vendite (pochine) e un po' perché il progressive che hanno cercato di incastonare nel loro unico disco stava già perdendo colpi.

Nel 1976, anno della prima pubblicazione di questo gioiellino, le maggiori band progressive organizzavano cambi di rotta (Yes, Genesis) e quelle nate da poco (Rush, Camel) indirizzavano questo genere musicale verso altre spiagge. Nonostante tutto, i Cathedral, sembravano vivere in un oasi incontaminata, dove il tempo si era fermato (intorno al 1972) e dove poter tranquillamente registrare un disco di musica progressive sinfonica sul modello dei grandi gruppi inglesi che avevano fatto storia.
Il loro sound non brilla per originalità è vero, i riferimenti agli Yes si sprecano, tuttavia non manca una certa ricerca verso la sperimentazione e un uso veramente superbo di alternanza di momenti melodici, notturni, catartici ad altri più movimentati, con ritmiche impegnative e complesse che crescono poco a poco fino ad esplodere. Il disco non è facile da ascoltare: non lo si può mettere sul piatto (la versione in cd è praticamente irreperibile) e poi lo si lascia andare. I brani catturano per la loro precisione, perfezione e per la presenza di numerosi strumenti contemporaneamente: accade spesso che la voce eterea e sognante di Paul Seal venga accompagnata da organi, chitarre acustiche, percussioni e strumenti classici senza mai però saturare il suono. Nessuno strumento prevale sugli altri e questo crea intensi passaggi strumentali in bilico tra il caos organizzato dei King Crimson più sperimentali e il classicismo sinfonico degli Yes. Massimo esempio di tali espedienti è il brano che apre il disco, "Introspect", piccola suite dove certamente non mancano le idee e quella sperimentazione di cui parlavo. La soffice chitarra di Rudy Perrone risalta nella parte finale del brano con assolo tipicamente progressive e riprese melodiche fino alla superba chiusura acustica.
Il brano successivo, "Gong" mantiene le promesse. Uno strumentale eccelso, tra momenti sognanti con acustiche e tastiere orchestrali e accelerazioni assolutamente integrate nel procedere della traccia. Di nuovo la chitarra di Perrone descrive melodie mai banali nell'assolo che sfocia in un arpeggio di indubbia levatura tecnica non solo da parte del chitarrista ma del gruppo intero. Si passa al lato B del disco. Un coro da chiesa introduce quello che sicuramente è il brano più sperimentale di tutta l'opera: "The Crossing". Impossibile non ripensare ai Genesis mentre lo si ascolta, soprattutto è la voce di Seal a trarre in inganno ricordando il timbro di Peter Gabriel, specialmente negli acuti. La parte strumentale tuttavia è molto personale e rientra perfettamente nei canoni stilistici descritti precedentemente. "Days & Changes", introdotta dalla sola voce di Seal, si presenta come un brano più melodico e rilassato ma riprende quasi subito le rotte ideali del gruppo. Il sound questa volta è marcatamente Yes, a passaggi orchestrali di organo si alternano staccati tecnicamente impeccabili che coinvolgono principalmente il basso e la batteria mentre Perrone da sfogo alle sue voglie chitarristiche sempre molto pacate. Il brano si chiude ad anello riprendendo il tema corale iniziale. Per chiudere, la seconda suite: "The Search". L'inizio è meno nervoso rispetto ad "Introspect" e l'introduzione strumentale lascia spazio al cantato sempre molto sentito di Seal. La melodia vocale, che nella traccia risalta maggiormente, è sicuramente la migliore del disco. Brevi staccati senza voce tra una strofa e l'altra danno pathos al brano che sembra crescere in un climax dove si aggiungono strumenti e la batteria prende velocità. A chiudere il tutto lunghi accordi di organo dove gli influssi dei King Crimson del primo periodo e dei Genesis di Gabriel sono sempre evidenti. Preciso che questi continui paragoni non sono per minimizzare il gruppo quanto per dare a chi legge una vaga idea della complessità veramente straordinaria di questo album.
"Stained Glass Stories", come ho già detto, è un disco uscito in un periodo sfavorevole per il progressive più classico ma che possiede così tante qualità che andrebbe riscoperto e rivalutato con la giusta attenzione. Un gruppo, i Cathedral di New York, che cercava un identità e purtroppo non è riuscita a trovarla appieno e che, malgrado tutto, ci ha regalato un piccolo gioiello che sta a noi sfruttare. Possibilmente al meglio.


Voto: 9/10

Le idee non sono sempre originali e l'ispirazione ai grandi del progressive inglese penalizza un po' ma è pure vero che la sperimentazione (soprattutto in alcuni brani) ha un ruolo primario in tutta la produzione.

mercoledì 26 marzo 2008

Balletto di Bronzo



"Il Re Del Castello" 1990


Per gentilissimo omaggio di un mio grande amico ho potuto apprezzare questo splendido disco di un gruppo che, aimè, non ha la fama che merita. Il Balletto di Bronzo è uno di quei gruppi italiani caduti nel dimenticatoio (gli Osanna, i Trip, il Rovescio della Medaglia, chi se li ricorda?) che però prima di una tale sconsiderata sorte avevano, nel loro piccolo, dato qualcosa alla storia della musica. Il gruppo in questione aveva pubblicato due dischi: Sirio 2222 e il bellissimo Ys (addirittura per la Polydor!) che è un autentico gioiello di progressive di matrice italiana. A differenza dei loro colleghi più illustri (Banco del Mutuo Soccorso, Premiata Forneria Marconi, Perigeo, New Trolls) i Bronzi avevano esplorato più avidamente i sentieri di un prog decisamente più hard, andando a realizzare una notevole sintesi di hard rock di matrice britannica (forte l'influsso dei Jethro Tull prima maniera [This Was per capirci]) e un progressive romantico tipico delle band allora in voga. Il risultato, magistrale, lo si può apprezzare in Ys (1972), quando i nostri erano apprezzati da pubblico e critica mietendo successi.

Il disco di cui vado a parlare però è una perla rara. Innanzitutto è una tiratura limitata (10.000 copie, scusate se è poco, disponibile solo in vinile), uscito nel 1990 sulla famosissima rivista Raro! (tutt'oggi in stampa), e raccoglie del materiale scartato dal gruppo tra il 1969 e il 1970. La solita schifezza, penserete.

E invece no. Sul primo lato compare la bellissima Accidenti (un amore finito male...), un brano che comincia con un madrigale e continua con intermezzi di chitarra solista (un Lino Ajello semplicemente incisivo) con una melodia sognante ed evocativa. Ammetto che nelle parti cantate ricorda ECCESSIVAMENTE "A Salty Dog" dei Procol Harum e probabilmente è per questo che non è mai finita su di un disco ufficiale, ma sinceramente è un qualcosa che non guasta la bellezza della canzone, non per altro perchè è cantata in italiano. Il brano successivo è "Il Re del Castello", uno strumentale. Sempre sulla falsa riga dei Procol Harum più energici, Ajello da una prova di maestria chitarristica di cui il prog italiano, con tutta franchezza, ne aveva veramente bisogno. A chiudere il lato A la versione strumentale di Neve Calda, perla del pop italiano dei tempi che furono, appesantita per l'occasione e, secondo me, ancora più evocativa della versione cantata.

Il lato B è inaspettato, un vero bijou per collezionisti: le versioni registrate per il mercato spagnolo dei singoli del Bronzo fino ad allora usciti. Niente male no?


Voto: 8/10

Se riuscite a trovarlo è un disco che vi lascerà stupefatti, non per altro perchè è materiale scartato! E la cosa da da riflettere... immaginate quanto può essere bello Ys!


Un ringraziamente particolare al mio amico Giorgio, senza il quale non avrei mai conosciuto questo splendido disco... per di più a gratis!!!

martedì 25 marzo 2008

Into The Wild



di Sean Penn, con Emile Hirsch, William Hurt, Marcia Gay Harden, Jena Malone, Vince Vaughn


Premetto col dire che questo è senza dubbio uno dei migliori film che io abbia mai visto. La verità è che un film dal genere da Sean Penn non me lo aspettavo. Voglio dire, i precedenti film da lui diretti non sono un trionfo di cinematografia (anche se Lupo Solitario con il grande Mortensen merita non poco...) e sicuramente essendo questa la quarta (quinta se si conta un documentario sull'11 settembre) prova dietro la cinepresa mi aspettavo un film stanco e anche un pò noioso.

Quanto sbagliavo. Nonostante la regia non sia di alta classe (Dennis Hopper lo avrebbe sicuramente fatto meglio) la storia e la sceneggiatura sono praticamente perfette, senza sbavature, nè punti in sospeso nè vuoti narrativi. Poche volte mi è capitato, in sala, di desiderare che il film non finisca mai, perchè la vicenda di Christopher McCandless, aspirante hippie, tiene veramente col fiato sospeso e l'interesse non scema mai.

Così dalle prime inquadrature si entra nel mondo (selvaggio) di un vero e proprio elogio alla libertà di essere e di vivere, in un viaggio interiore sui significati di vita, felicità e libertà stessa. Basato su di un fatto vero, Christopher McCandless (nel film si ribattezza Alex Supertramp) parte per un viaggio verso il nord in compagnia dei suoi libri e di pochissimi altri oggetti (io ho visto solo un rasoio...) alla ricerca della sua interiorità e soprattutto per scrollarsi di dosso i pesanti fardelli dell'ipocrisia e della borghesia, stillati con veemenza dai genitori. Il tutto coadiuvato da una colonna sonora fantastica firmata da Eddie Vadder che per una volta ha lasciato perdere le tematiche grunge dei Pearl Jam per abbracciare profondamente i concetti di libertà e spirito di intraprendenza che pervadono il film e, di conseguenza, anche le musiche.

Da notare i continui riferimenti a libri e citazioni da Tolstoj a Jack London (anche se lo spirito più comune al film sarebbe quello di Sulla Strada di Keruack) e una frase bellissima che Alex dice alla ragazza incontrata in una delle comunità hippie: "Se vuoi qualcosa nella vita, allunga la mano e prendila"


Voto: 9.5/10

Film perfetto che con una regia di classe sarebbe stato ancora più emozionante. Sicuramente una delle pellicole più belle degli ultimi anni, personalmente è tra i miei dieci film preferiti.
Appunto personale: se Sean mi avesse chiamato durante il montaggio gli avrei amichevolmente suggerito, con l'aggiunta di una modesta somma di denaro puramente simbolica, una perfetta canzone per la chiusura, da mettere sui titoli di coda e nelle ultime inquadrature: Find The Cost Of Freedom (trova il prezzo della libertà!) di Stephen Stills. Allora il film sarebbe stato veramente perfetto.

martedì 18 marzo 2008

King Crimson


"In The Court Of The Crimson King", 1969


Possiamo dire che il progressive rock stava nascendo nella metà degli anni 60 in Inghilterra. Ce ne erano tracce nelle sperimentazioni dei Beatles ("Revolver"?), in "Their Satanic Majesties Request" degli Stones, e anche in America (ma meno accentuate) tra le improvvisazioni lisergiche dei Grateful Dead e degli Hawkwind e soprattutto nelle opere buffe di Frank Zappa ("Lumpy Gravy"). Tuttavia il genere era un concetto ancora in via di sviluppo: quegli artisti non sapevano che stavano facendo progressive nel vero senso della parola. La consapevolezza arriva nel 1969 grazie ad un disco dalla portata storica impressionante: "In The Court Of The Crimson King". Posso quindi asserire, nel pieno delle mie facoltà mentali, meno di quelle motorie, che Robert Fripp, leader assoluto del gruppo e chitarrista di gigantesca perizia tecnica, ha creato il primo vero e proprio disco di progressive rock.

La curiosità, tuttavia, sta nel fatto che il primo vero brano di questo nuovo genere ha radici tutt'altro che nuove: "21st Schizoid Man", prima traccia del disco, fonda elementi di acid jazz, blues hendrixiano e hard rock tutt'altro che innovativi. Il brano è impressionante: si basa su di un giro di chitarra e basso al quale gli esperti hanno addirittura attribuito l'etichetta di proto-metal! In effetti è un brano tiratissimo, di difficilissima esecuzione e di una pesantezza assolutamente inconcepibile per un disco del 1969! Da allora, nel 1970, è nato il vero hard rock (Deep Purple, Black Sabbath, Uriah Heep ecc) e anche le varie forme di progressive che dilagheranno per tutti gli anni 70.

Tolto il primo brano quindi, (che è il risultato del calderone: progressive, appunto), le altre stupende tracce attingono direttamente dalla tradizione romantica inglese, con incursioni di sofisticatissimo pop ("I Talk To The Wind"), e rimandi alla scena rock di Canterbury (più avanti maggiormente esplorata dai Caravan e dai geniali Hetfield & The North) con il brano "Epitaph" e la psichedelia estrema della lunghissima "Moonchild". A chiudere l'album torna il magnifico progressive sinfonico di "The Court Of The Crimson King", che fonde tutti gli elementi finora analizzati, raggiungendo la perfezione stilistica senza troppe cerimonie.

"In The Court Of The Crimson King" è considerato quindi il primo disco al quale l'etichetta progressive calzava alla perfezione. L'impatto commerciale non fu immediato (ora è uno dei dischi più venduti di sempre) mentre critica e appassionati di musica sofisticata lo elevarono direttamente a capolavoro assoluto. La bravura tecnica del quartetto (tra gli altri anche Greg Lake al basso e alla voce solista) era indiscutibile e, a guardarli ora che Robert Fripp sforna ancora album (certo ogni volta con una formazione diversa), sono l'unico gruppo che è nato progressive e continua progressive, qualcosa vorrà dire no?


Voto: 10/10
La portata storica dell'album è indiscutibile, i brani sono uno più bello dell'altro, la capacità tecnica verrà superata solo nell'irraggiungibile "Island" del 71.

lunedì 17 marzo 2008

The Rolling Stones


"Some Girls", 1978

C'è chi dice che la carriera degli Stones è finita nel 1972, ai tempi di "Exile On Main St.". Convinti detrattori dicono che solo i primi due album valgano la pena di essere ascoltati. Le persone normali invece hanno adorato questo gruppo in ogni loro album e i fan più sfegatati (cough, cough) hanno apprezzato anche "Undercover" del 1983. "Some Girls", uscito nel 1978, è il loro disco più venduto in America, forse perchè avevano abbandonato il blues estremo di "Goats Head Soup" (1973) e Ron Wood si era finalmente ambientato sfornando un disco di sana cattiveria rock'n'roll nello stile più Rolling possibile. Bisogna dirlo: per quanto mi riguarda negli anni settanta non c'è un disco degli Stones che non valga la pena di essere adorato, però questo qui ha tutte le carte in regola per essere considerato uno dei più importanti della loro carriera, superando di un pelino il capolavoro precedente "Black & Blue"(e ce ne voleva!). Certo, c'è da dire che nel 78 andava di moda la disco music e gli Stones sono riusciti ad arruffianrsi gli Stati Uniti (maggiori consumatori di disco music ma anche i più grandi appassionati di Stones) con un trucchetto chiamato "Miss You", la prima traccia dell'album in questione. Una canzone leccaculo in maniera selvaggia, che ti prende in maniera orribile e ti costringe a cantarla per ore ed ore. Mick e Keith sono stati altrettanto furbi: dissero che si trattava di funky... si, funky, così avevano evitato l'imbarazzante etichetta "disco" che avrebbe pesantemente sfigurato in un disco di rockettari fino al midollo. Così "Miss You" diventa il singolo più venduto di quell'anno e porta "Some Girls" ai vertici di tutte le classifiche. Gli Stones però erano furbi: d'accordo "Miss You", ma il resto dell'album è una bibbia indiscutibile del Rock'n'Roll. "When The Whip Comes Down" la suonano ancora ai concerti così come quel capolavoro di "Shattered"; "Some Girls" (il brano vero e proprio) poi aveva risvegliato il machismo duro (parecchio duro) e puro (molto puro) di Jagger, con un testo di un sessismo imbarazzante ("some girls take my money, some girls take my clothes, girls just wanna get fucked all night" tanto per citare qualche frase) esplodendo in un blues sporco e ruvido che non si sentiva dai tempi di "Midnight Rumbler" (1969). Sul disco compare anche una perla del pop come "Just My Imagination" e la ballata per eccellenza degli Stones, "Beast Of Burden", una delicata riflessione sullo stato delle cose da parte di Mick che sfocia, non ho mai capito come, in un implorazione esplicitamente sessuale... beh gli Stones sono soprattutto questo.
Al chiudere il tutto una copertina fantastica che funge da catalogo di parrucche con le facce dei nostri e un libretto che è in realtà un altro catalogo, sta volta di reggiseni (arf!), dell'epoca.

Voto: 8/10
perchè 9 lo darei a "It's Only Rock'n'Roll" (10 a tutti quelli prima ovviamente) e questo disco non ha la stessa violenza.

lunedì 10 marzo 2008

Elvis Presley


"Aloha From Hawaii", 1973



La sensazione di quando compro un disco nuovo di Elvis Presley è sempre la stessa: come ho fatto a campare senza fino ad'ora?
Acquistata oggi la nuova edizione del famoso concerto alle Hawaii del 1973 del Re, il primo concerto rock mai trasmesso in mondovisione... MONDOVISIONE! Quell'anno, di preciso il 14 Gennaio, il mondo intero ha avuto l'occasione di vedere sua maestà Elvis Presley in tutto il suo splendore, in un concerto di un'ora e mezza in cui mostrava la sua immensa superiorità per quanto concerne la materia rock'n'roll. Un dio. In questa edizione completamente nuova e rimasterizzata basta attaccarsi alle cuffie ad un volume spropositato e lasciarsi trasportare dalla grandezza inquietante di un uomo che ha semplicemente scritto la storia della musica.
Un concerto immenso, stupendo, magnifico, c'è tutto: dal rock'n'roll, al blues (la versione più bella mai sentita di Steamroller Blues di James Taylor), al soul (My Way di Sinatra fatta da lui fa un certo effetto).
Era un Elvis in stato di grazia, con una band perfetta (il grande James Burton alla chitarra e Glen Hardin al piano!!!), che parlava ancora con il pubblico e si divertita, si sente che si divertiva cazzo! ...purtroppo i concerti dal 75 in avanti, per quanto perfetti dal punto di vista tecnico, mancano di questa spontaneità, sarà che stava imbottito di robe... vabbè...
Beh, ancora lo sto ascoltando a tutta manetta... questa non è una recensione critica in effetti... un pò di parte magari, ma come si può criticare il Re?
Si può?
Dieci secco

Voto: 10/10
E' il Re

domenica 9 marzo 2008

Sweeney Todd


di Tim Burton, con Johnny Depp, Helena Bonham Carter, Alan Rickman.

Ho aspettato un pò prima di andare a vedere questo film. Ero diffidente lo ammetto, perchè Tim Burton non mi ha mai convinto. Diventato ormai più un fenomeno mediatico, gadgets e pupazzetti vari, il suo talento registico è sinceramente non all'altezza delle aspettative. Questo film è la prova che Burton continua a fare sempre le stesse cose, dimostrando come non si sia mosso dalla formula creata (allora era una cosa nuova però) ai tempi di Edward Mani di Forbice nel lontano 1990, e cioè della favoletta dark con un Depp che si discosta solo lontanamente dai clichè di tutti i film realizzati con l'amico regista. E a difettare in questo nuovo film è proprio la regia: misera, senza un minimo di tecnica, scontata e per niente originale. Diciamo molto meglio le musiche, perchè di musical si tratta, davvero interessanti, anche se non rimangono nella mente dell'ascoltatore. Due parole a parte vanno a Dante Ferretti e a sua moglie Francesca Lo Schiavo che hanno ricreato l'universo visionario di Burton (e vinto gli Oscar relativi), una Londra perennamente oscurata dove il colore più vivido è il sangue versato dalle lame affilate dei rasoi di Todd. E veniamo alla trama, altro punto debole dell'intera produzione. Avete presente il Conte di Montecristo di Dumas? Bene, è più o meno una vaga rivisitazione. Todd è messo in prigione per quindici anni, perchè un giudice senza scrupoli (uno splendido Alan Rickman [il Piton di Harry Potter]) è innamorato di suo moglie, allora per averla tutta per se lo sbatte in prigione. Una volta tornato a Londra, Todd farà vendetta "purificando" la città nel suo personalissimo modo, in un trionfo di cattivo gusto ai limiti dello splatter. Ad abbassare ulteriormente il livello qualitativo del film sono i colpi di scena: talmente scontati e prevedibili che la pellicola comincia ad annoiare e bisogna godersi le musiche per resistere e non uscire dal cinema.
In sunto un film che Burton poteva veramente evitare, perchè va bene le favolette dark (la Sposa Cadavere era molto più interessante) ma dopo un pò ci si stufa.

Voto: 4/10
Si salvano le musiche, Depp ha una voce gradevole e la scenografia tutta italiana.

Mi presentai

Piacere, Marco
Nato così un direi nuovo et inedito blog sulle tre meravilliose arti che illuminano l'aenimo humano: la musica, la letteratura et il cinema.
A breve metterò proprio quivi i saggi sugli argomenti quali sopra, che con tanta fatica quanto sudore scrivo invece di studiare.
Ossequi dal vostro amico porpora